TIR, di Alberto Fasulo, con Branko Zavrsan, durata 85’, nelle sale dal 27 febbraio 2014, distribuito da Tucker Fil.
Recensione di Luca Marchetti
Trionfatore all’ultimo Festival del Cinema di Roma, dove ha incantato la giuria guidata dal grande James Gray, Tir di Alberto Fasulo è arrivato finalmente nelle sale italiane.
Il regista friulano ma romano d’adozione, viene da una forte e sentita esperienza documentaristica, sublimata nel suo capolavoro Rumore Bianco, pellicola struggente che segue la vita lungo il fiume Tagliamento.
Nella sua prima esperienza nella finzione, Fasulo, con coerenza, decide di non tradire il proprio spirito di osservatore. Tir, infatti, segue la storia di Branko (Branko Zavrsan, co-autore della sceneggiatura), ex-insegnante croato diventato camionista per guadagnare di più. La sua vita, racchiusa dentro l’abitacolo del suo camion, è in continuo movimento lungo chilometri di autostrade sempre uguali, alleviata dalla voce di una moglie lontana che lo vorrebbe di nuovo a casa. E’ questa l’unica materia incandescente che il regista segue con occhio attento.
La vita ai margini di una figura come il camionista, i turni di lavoro assurdo, un’esistenza divisa tra pasti fugaci sul ciglio di una strada e notti insonni su brandine, è la fotografia inedita di un mondo sconosciuto, evocato dai media solo dopo qualche tragedia stradale.
Branko e il suo camion, diventano i protagonisti assoluti di questa storia, un film che proprio nella sua struttura anti-narrativa e lontana anni luce dall’immagine stereotipata della pellicola on the road cui siamo abituati, rispecchia davvero la mitologia della strada, la durezza di un mestiere usurante ed eroico, per il mettere in gioco i limiti umani di sopportazione.
Lo sguardo sfranto di Branko, le sue espressioni desolate, la sua malinconia per una famiglia evocata solo da qualche telefonata, sono tutte caratteristiche di un dolore che Fasulo raccoglie intatto per trasportarlo sullo schermo.
Molti critici hanno attaccato con violenza quest’opera e la sua vittoria al Festival romano, ottusi nel negare una celebrazione sacrosanta. Un’affermazione che insieme a quella veneziana dell’ottimo Sacro GRA (altro film dove la strada diventa il metro con cui raccontare la Vita) indica nuove, interessanti direzioni per fare Cinema.
Stanchi di narrazioni ripetitive o operazioni commerciali futili, pellicole come quelli di Fasulo e Rosi, con la loro contaminazione/sposalizio tra documento e finzione, raggiungono vette di coinvolgimento emotivo e presentano nuove e originali prospettive cinematografiche.
Chi non vuole vedere tutto ciò, ancorato a una visione non solo arcaica ma soprattutto bigotta di Cinema, non merita altro che indifferenza.