“Synecdoche, New York”, di Charlie Kaufman, con Philip Seymour Hoffman, Michelle Williams, Catherine Keener, Jennifer Jason Leigh, Tom Noonan, Samantha Morton, Hope Davis, Lynn Cohen,; durata 124’, nelle sale dal 19 giugno 2014 distribuito da BIM.
Recensione di Luca Marchetti
Esordio alla regia dello sceneggiatore Charlie Kaufman (scrittore di successi cinefili come Se ti lasci ti cancello e Il ladro di Orchidee), Synecdoche, New York arriva finalmente in Italia, con quasi sei anni di ritardo.
Portato in sala probabilmente per cavalcare la scia lunga della tragica, prematura scomparsa del suo protagonista, Philip Seymur Hoffman, il film fu presentato in concorso al sessantunesimo festival di Cannes, dividendo la critica internazionale tra fan affascinati e disgustati detrattori.
Chi conosce bene l’opera da sceneggiatore di Kaufman sa bene che lo scrittore non ama molto il racconto semplice o la narrativa lineare. Tra storyline volutamente confusionarie, molteplici piani di narrazione e personaggi ambigui, l’opera dell’autore di Essere John Malkovich si presenta spesso come un intellettuale (e a volte arrogante) gioco d’intelligenza dove, oltre a confondere lo spettatore, Kaufman fa sfoggio del proprio mestiere e del proprio talento.
Nella sua prima regia, questi elementi non potevano certo mancare soprattutto in un film in cui, privo dei freni imposti dalla visione di un terzo incomodo (cineasti come Spike Jonze o Michel Gondry), la vena auto-celebrativa cervellotica dello scrittore esplode in tutta la sua forza mentale.
Synecdoche, New York segue il viaggio sul confine tra realtà e immaginazione del regista teatrale Caden Cotard (Philip Seymur Hoffman) alle prese con la fuga di sua moglie, nuovi problemi sentimentali e una misteriosa malattia che blocca il suo nuovo progetto artistico. Abusando fino in fondo della scrittura, Kaufman esagera nell’enfatizzazione dei propri vezzi, arrivando quasi ai limiti dell’autoparodia. Nel suo tentativo di rappresentare la quotidianità in tutta la sua immediatezza Caden/Kaufam rompe i margini spazio-temporali, confezionando quello che, per freddezza, diventa subito un meccanismo intellettuale fine a se stesso, un esercizio di scrittura manieristico che difficilmente riesce ad arrivare al pubblico.
Il film però ha il pregio di reggersi su una delle migliori interpretazioni del suo mastodontico protagonista. Philip Seymur Hoffman, nonostante tutto, continua a vivere in queste incredibili performance, nuove commoventi occasioni per vedere e per rivivere il talento unico di uno dei migliori interpreti della sua generazione. Come il guru di The Master o il Truman Capote dell’omonimo film, anche questo tormentato regista di teatro trasmette il dolore, quasi fisico, con cui Hoffman affrontava la scena, una fiamma ardente che nemmeno la morte può tentare di spegnere.
Se riuscirete a sopravvivere alla boria di un regista strafottente, godetevi almeno questa eccezionale testimonianza recitativa che Synecdoche, New York regala.