Boyhood, di Richard Linklater, con Patricia Arquette, Ellar Coltrane, Ethan Hawke, Lorelei Linklater, Tamara Jolaine, Evie Thompson; durata 163’, nelle sale dal 23 ottobre 2014, distribuito da Universal Pictures.
Recensione di Luca Marchetti
Presentato con un enorme successo di critica in tutto il mondo, arriva finalmente nelle sale italiane Boyhood, la nuova radicale pellicola del regista Richard Linklater.
Il cineasta texano, nel corso della sua carriera, ha sempre alternato pellicole fieramente indipendenti con opere dalle ambizioni e dalle atmosfere mainstream. Alla soglia dei ventuno anni di carriera, Linklater decide di consegnare al grande pubblico la sua opera più importante, un film che, nel bene e nel male, segnerà il cinema americano e internazionale.
Boyhood, infatti, porta all’esasperazione il tentativo, tipico di certo cinema indie, di unire le pretese da documentario di fotografare la vita vera, con le esigenze narrative-fiction del mezzo cinematografico.
Il film di Linklater, dunque, segue per una decade la vita di un intero cast di attori, con il giovane protagonista Mason (Ellar Coltrane), che cresce letteralmente davanti ai nostri occhi, e lo accompagna in tutte le tappe più importanti della vita, dall’infanzia fino al primo giorno dell’università.
Affiancato da attori professionisti (i due genitori sono interpretati da Patricia Arquette ed Ethan Hawke, due amici di sempre) e non (la figlia del regista interpreta la sorella grande del protagonista), Linklater prova in circa tre ore (tanto dura il film) a emulare i grandi, avvicinandosi all’esempio portato nella storia del Cinema da Francois Truffaut e Jean-Pierre Léaud (in cinque pellicole, però).
I cambiamenti fisici ed emotivi di Mason/Ellar e il suo crescere in un contesto comunque felice sono simboli plastici dell’ambizione di Linklater di incanalare in un solo film la vita come viene, senza drammatizzazioni eccessive o svolte narrative forzate.
Uno spettatore abituato agli schemi narrativi del cinema tradizionale non potrà che sentire come continuamente spostata l’asticella dell’attesa e, arrivando anche a essere frustrato, noterà come nella vita di Mason non succeda quasi nulla di veramente degno di essere definito cinematografico (nel senso tradizionale della parola).
Proprio nell’ostentata ricerca dell’anticlimax e della banalità risiedono la forza e il senso di un’opera che cerca di trasformare la quotidianità quasi scontata di una vita normale nel più grande spettacolo che si sia visto su uno schermo cinematografico.
L’adolescenza di Mason diventa, quindi, la fotografia di un’America che può cambiare look, musiche e presidenti, ma rimarrà sempre la stessa, ineluttabile. Boyhood dunque diventa una prova epica per fare qualcosa di profondamente diverso, il racconto universale, nel piccolo di una vita comune, dell’immenso della Vita Comune.
Si tratta di una pellicola affascinante ed emozionante, ma una domanda non può che sorgere spontanea: dove finisce la furba operazione mediatica e dove inizia il grande film?