Torino si dimostra ogni anno, nonostante il freddo e la pioggia di questo inverno, uno dei luoghi dove il Cinema può essere una festa popolare e cinefila allo stesso tempo.
Un festival unico dove il mondo del mainstream delle grandi produzioni e delle grandi storie incontra gli esperimenti più laterali ed esterni, fotografie di vite di confine che trovano sui grandi schermi della città piemontese finalmente la legittimità di essere considerate.
Il Festival di Torino, segnato in questa edizione dal contenimento forzoso dei costi e dalla sacrosanta promozione di Emanuela Martini a direttore artistico, ha nella sua storia e nel suo dna l'intelligenza e la forza di coinvolgere l’intera città. Torino risponde sempre entusiasta all’invito per questi viaggi oltre i reticolati del glamour e dell'apparenza, oltre i rigidi schemi del confezionato, regalando a chiunque (specie a chi è abituato a kermesse di altro genere e supponenza) il piacere di vivere una settimana di Arte e Passione.
I Film
Quando parliamo di pellicole di confine o di periferia non vogliamo pretendere di parlare di urbanistica o di mettere in campo assurde riflessioni sociologiche, di fatto, limitandoci. Certo alcune volte l’aspetto geografico ha il suo peso, come succede in The Drop, esordio americano del fiammingo Michael R. Roskam, già autore dell’ottimo Bullhead, e scritto dal romanziere Dennis Lehane (Mystic River).
In un noir periferico che usa la convenzione per entrare nel cuore della storia, abbiamo il lento barista Bob, uomo misterioso che si aggira in uno dei tanti quartieri americani in cui tutto può succedere.
Come già evidenziato con efficacia dal Ben Affleck regista di The Town, il proprio sobborgo diventa spesso agente qualificante della propria vita. L’ostentata decadenza dei pub, delle chiese dimesse e delle fatiscenti villette a schiera è il coro della vita tranquilla di Tom Hardy, del compianto James Gandolfini e di Matthias Schoenaerts, disposti a interpretare comunque il proprio ruolo sociale per seguire alla lettera le regole del proprio gioco.
Al contrario, però, basta vedere pellicole come En chance til di Susanne Bier e Infinitely Polar Bear di Maya Forbes per capire che la marginalità spesso si può trovare dentro una famiglia.
Alla fine non c’è troppa differenza tra una moglie disperata, che costringe il proprio marito a compiere scelte che gli danneranno l’anima, e un padre che con i suoi disturbi mentali invadenti costringe due ragazzine a vivere ogni minuto come la battaglia più faticosa e il più divertente dei giochi. Se Mark Ruffalo incarna con dolcezza la fiera eccezionalità di un uomo borderline, alle prese con due bambine eroiche, la follia nociva di Maria Bonnevie è la scintilla che fa esplodere la tranquillità sospesa di Nikolaj Coster-Waldau, indirizzandolo verso gli errori/orrori della disperazione.
Nei due film italiani Frastuono di Davide Maldi (pellicola in concorso a Torino 32) e Rada di Alessandro Abba Legnazzi (vincitore del premio come miglior documentario italiano), i confini diventano anagrafici, concentrandosi, da un lato, sulla rabbia di chi è troppo giovane e, dall'altro, sulla rassegnata serenità di chi invece è troppo vecchio.
Nel bel documentario di Abba Legnazzi, in un ospizio ligure per anziani marinai, il regista recupera le straordinarie storie di questo gruppo di sopravvissuti, vecchi eroi che hanno scelto la solitudine di una vita passata in ogni porto, sulle rotte tra l’Alaska e il Senegal, e ora si ritrovano imbarcati nel loro ultimo lungo viaggio.
Lo splendido carisma, i loro ricordi commossi e la loro divertita consapevolezza di aver forse sbagliato tutto ma di non voler rinnegare nulla sono il cuore di un breve documento emozionante ed esilarante.
Nella pellicola di Maldi, invece, i protagonisti sono due ragazzi di una Pistoia deprimente, due corpi in divenire che trovano nella musica respingente la loro personale via di fuga, il modo perfetto per gridare contro il mondo della provincia.
Maldi è troppo spesso concentrato a seguire i propri pruriti sperimentali fini a se stessi, per dare emozione e fiato alla propria storia dallo spirito realista se non per brevi istanti, anche alcuni passi del frastuono dei “deliri” musicali dei protagonisti riescono a passare.
E infine tocca al prodotto Made In Hollywood, l’ennesimo tentativo degli studios di usare i bisogni spirituali dei molti che decidono di rinnegare la civiltà per ritrovarsi nella natura, nel viaggio, nell’isolamento.
Come tanti road movie (da Into the wild in poi), anche Wild di Jean Marc Vallée segue l’avventura umana di Cheryl Strayed/Reese Witherspoon, ragazza scivolata in un vortice di autodistruzione per riempire i propri vuoti di dolore.
Solo l’immersione fisica nei chilometri della Pacific Crest Rail, tra i dolori (del passato) e gli ostacoli (del futuro), permetteranno alla ragazza di diventare la donna che vuole essere, dentro una pellicola dalla confezione perfetta.