Fury, di David Ayer, con Brad Pitt, Logan Lerman, Shia LaBeouf, Jon Bernthal, Michael Peña, Scott Eastwood, Xavier Samuel, Jason Isaacs, Jim Parrack, Branko Tomovic, Brad William Henke, durata 135’, nelle sale dal 2 giugno 2015, distribuito da Lucky Red.
La Germania del 1945 è una terra desolata, sul baratro di un’apocalisse. Distrutta e spezzata da una guerra totale, che lentamente si sta ritorcendo contro di essa, venendo a chiederle il conto sin dentro i bunker di Berlino, questa landa disperata di morte e dolore è lo scenario allucinato delle ultime gesta del carrarmato Fury e del suo equipaggio.
Belva di guerra, a metà strada tra il cavallo d’acciaio dagli ottimisti e futuristi sussulti di un avvenire prodigioso e il risultato concreto di sangue e acciaio di un mondo ormai destinato alla follia, Fury è l’ultimo baluardo di una dimensione eroico-guerriera che vede nel sergente Wardaddy e nei suoi soldati gli ultimi alfieri.
Uomini segnati da una rabbia rassegnata, destinati (come il cecchino dell’ultimo Eastwood) a non tornare mai più a casa, a non lasciare mai più le proprie armi, i protagonisti dell’ultimo film di David Ayer (sceneggiatore adrenalinico, impegnato a costruirsi un’interessante carriera di regista di genere) sono fantasmi mossi da istinti puri e assoluti.
In questa storia dell’orrore si ritrova catapultato (per sbaglio?) il giovane Norman, soldato semplice, costretto a diventare uomo tra le macerie della civiltà.
Da quel conflitto, da quella particolare Storia, non è possibile tornare indietro senza avere almeno un segno o una cicatrice. E’ semplicemente impensabile uscire da questa tragedia senza lividi, convinti di poter mantenere la propria innocenza. Non c’è redenzione, non c’è salvezza per nessuno.
Il violento coming-of-age di Norman (interpretato da un sorprendente Logan Lerman) troverà il suo culmine solamente nella totale adesione a questo mondo privo di senso, anticamera ideologica della nostra epoca, dove per una sola svolta del caso ci si ritrova dalla parte giusta della morte, costretti a vestirsi da testimoni per portare con sé la follia di una guerra.
Muovendosi sul flebile confine tra l’eroismo autocelebrativo mainstream e la violenza borderline cinica di Sam Peckinpah, David Ayer realizza un film di una precisione disarmante. Pur lontano decenni e chilometri dai deserti mediorientali o dalle montagne afgane, Fury è un’opera che parla costantemente delle nostre guerre, delle nostre battaglie per il Bene tramutate in orge del Male.
Il mitologico sergente di Brad Pitt, attore sempre più consapevole con l’età del proprio carisma totalizzante, è un uomo di una disillusa modernità epicurea che affascina, pronto a indicare al suo più giovane soldato l’unica via, quella più difficile e sbagliata.
Ayer ha buon gioco a scegliere di imbastire troppe scene a effetto o a creare personaggi costruiti fino al midollo (tutto l’equipaggio del Fury), ma la sua furbizia da cineasta commerciale nulla toglie alla forza di una pellicola che nasce e muore con coerenza, non rinnegando il proprio spirito, sporco figlio della grande tradizione del cinema bellico “sbagliato”.
*critico cinematografico