Come molti ricorderanno, c’è stato un tempo, esattamente tra la fine degli anni sessanta e lungo tutti gli anni settanta del secolo scorso, in cui i libri di Marx si vendevano come il pane.
Quanto a leggerlo, però, era un altro discorso, perché si trattava, per lo più, di testi non proprio semplici e talora anche un po’ noiosi.
Poi la moda è passata e di Marx si è pubblicato, letto e parlato sempre meno, buttando, come si usa dire, con l’acqua sporca anche il bambino. Eppure non possiamo dimenticare di essere debitori a Marx di concetti, ancora in uso, come quelli di lotta di classe, alienazione e altri ancora.
Questo il motivo per il quale son tornato a leggere questo grande interprete del capitalismo, di cui le edizioni AlboVersorio hanno di recente ristampato, a cura di Massimo Donà e col titolo La scienza e le macchine, uno dei passi più significativi dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica del 1857.
Nell’epoca del trionfo della borghesia e della celebrazione delle macchine, già da Bacone esaltate come prolungamento delle braccia dell’uomo, si nota subito, in palese controtendenza, la capacità di analisi e l’originalità del pensiero marxiano.
La macchina è vista, infatti, da Marx come l’ultima metamorfosi del mezzo di lavoro escogitata dal capitale, con l’operaio chiamato solo a sorvegliarne l’azione e ad evitarne le interruzioni. Col che si è prodotto un singolare rovesciamento, nel senso che non è più l’operaio con la sua virtuosità ad animare lo strumento di lavoro ma è la macchina stessa a essere virtuosa e a regolare l’attività dell’operaio.
Il processo di produzione non è più processo di lavoro in quanto ormai è il lavoro a essere soltanto “un membro del sistema”. Persino lo stesso operaio si presenta “superfluo”, a meno che non serva al “bisogno del capitale”. Anche la scienza si presenta nelle macchine come una scienza altrui, esterna all’operaio. Dare alla produzione carattere scientifico è la tendenza del capitale e il lavoro è ridotto a un semplice momento di questo processo.
E’ a partire da tale riflessione - come ricordato da Donà nel suo Saggio sul concetto di alienazione in Marx, che costituisce la seconda parte del volume - che il pensatore di Treviri sviluppa poi il concetto di alienazione: l’operaio si aliena nel suo prodotto, nel senso che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno e indipendentemente da lui, cosicché la vita data all’oggetto finirà per apparirgli “ostile ed estranea”. E “nell’estraniazione dell’oggetto del lavoro si riassumerebbe l’estraneazione, cioè l’alienazione che si opera nella stessa attività del lavoro”, con l’attività dell’uomo che diventa passività e la sua energia che gli si rivolta contro.
L’alienazione è condizione in cui vivono ancora oggi tante persone. Ri-prenderne coscienza non fa male. Anche se Marx non è più di moda …