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Mercoledì, 03 Lug 2024

Nonostante le polemiche per l’esclusione di attori afroamericani dalle nomination più importanti, querelle cavalcata da Spike Lee e Will Smith, e ricordata a più riprese negli interventi del black comedian Chris Rock, la cerimonia degli Oscar 2016 ha confermato le aspettative di tutti.

E’ stata, infatti, la serata del trionfo finale di Leonardo Di Caprio. L’attore, dopo ben cinque nomination andate a vuoto (la più clamorosa forse quella per The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, anche se in quell’occasione doveva confrontarsi con la grande performance di Matthew McConaughey), ha finalmente messo le mani sulla tanto ambita statuetta.

Spinto dal tifo di milioni di fan entusiasti (e dall’ironia della rete), Di Caprio ha vinto probabilmente con la prova recitativa “più facile” della sua carriera. Il protagonista di The Revenant, infatti, è un ruolo fisicamente sfiancante, frutto di un lavoro più corporale che dialettico, la classica interpretazione ai limiti, tanto amata dai giurati dell’Academy.

In quest’occasione, poi, ha vinto anche l’effetto-Al Pacino: il voler premiare ad ogni costo, dopo troppe delusioni, uno degli attori più apprezzati e stimati dell’industria, un modello per i colleghi e per il pubblico (e lo splendido discorso di ringraziamento sul riscaldamento globale è lì a dimostrarlo).

Oltre il riconoscimento (meritato) per Di Caprio, non ci troviamo troppo d’accordo con gli altri due premi vinti da The Revenant. Certo, il film di Alejandro Inarritu è una pellicola visivamente maestosa, nata da un lavoro produttivo impressionante (le riprese sono state effettuate solo con luce naturale, in zone inaccessibili e riserve naturali) ma non possiamo non considerare quest’opera l’ennesimo tentativo del regista messicano di ostentare al mondo il suo, innegabile, talento.

Anche grazie alla collaborazione del suo fedele direttore della fotografia Emmanuel Lubezki (terzo Oscar consecutivo), Inarritu sembra usare il Cinema per dare sfogo ai propri deliri estetici, piuttosto che per raccontare storie.

Alla luce di ciò, rimaniamo davvero sconcertati nel vedere il cineasta ottenere il secondo Oscar consecutivo per la Regia (eguagliando il bis ravvicinato di John Ford).

Anche tra gli altri premi, poi, non ci sono grandi sorprese. Le giovani Brie Larson (Room) e Alica Vikander (The Danish Girl) conquistano, rispettivamente, gli Oscar per le migliori protagonista e non protagonista, dimostrandosi due ottime attrici, diventate oramai due star (soprattutto della seconda, sentiremo molto parlare).

Grande delusione, invece, per il mancato riconoscimento a Sylvester Stallone come non protagonista (per Creed).

Sly, considerato sulla carta il favorito della sua categoria, ha visto sfumare il proprio sogno di portare Rocky sul palco del Kodak Theatre, lasciando il passo a Mark Rylance, famosissimo attore teatrale inglese, spia sovietica ne Il Ponte delle spie di Spielberg.

Come fu per Mickey Rourke, Stallone paga, probabilmente, l’ottusità di un’Academy non ancora disposta a “perdonare” ad alcuni attori qualche scivolone o scelta creativa difficile.

Per il resto, grande soddisfazione per il filotto di vittorie fatto dal nostro amato Mad Max: Fury Road (il nostro film preferito dell’anno) nelle categorie tecniche, come ad attestare l’altissimo livello tecnico raggiunto nella pellicola di George Miller.

Impossibile da dimenticare, poi, l’Oscar a Ennio Morricone per la colonna sonora originale di The Hateful Eight di Tarantino. Il compositore romano, visibilmente commosso, è stato accolto dalla standing ovation del teatro, un tributo del riconosciuto status di Maestro del Cinema.

In conclusione, con la vittoria finale del bello e classico Il caso Spotlight come Miglior Film, si è avuta una nuova conferma della capacità di Hollywood di uscire sempre indenne dalle proprie zone d’ombra o flessioni, alla ricerca di una tradizione d’intrattenimento continua, che va oltre i meriti e le carriere, per ribadire con l’Oscar il proprio mito edificante.

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