Un sogno chiamato Florida di Sean Baker, con Willem Dafoe, Bria Vinaite, Brooklynn Prince, durata 111’, nelle sale dal 22 marzo, distribuito da Cinema Distribuzione.
Recensione di Luca Marchetti
Costruire un film intorno alle interpretazioni di bambini, specie se non professionisti, è sempre un enorme rischio da correre. Sono pochissimi i cineasti capaci di trattare i giovani attori con intelligenza e sensibilità, riuscendo a tirare fuori racconti di formazione sentiti, sinceri e commoventi. Se dovessimo fare qualche nome, non potremmo esimerci dal citare grandi maestri come Vittorio De Sica, Francois Truffaut o Steven Spielberg.
Con le dovute differenze, l’americano Sean Baker, con il suo Un sogno chiamato Florida, ha dimostrato di essere degno di tali predecessori. Con un amore e con un’attenzione rare nel cinema autoriale-indipendente statunitense, Baker (già autore di quella piccola perla che è Tangerine, interamente girata con tre iPhone 5) riesce a mettere al centro della sua dolceamara storia la splendida e giovanissima Brooklynn Prince, capace di trascinare, come una forza della natura, l’intera pellicola.
Un sogno chiamato Florida, infatti, è una favola dai colori ipersaturi, dove la piccola “principessa” Moone fa esplodere tutta la sua strafottente e irresistibile giovinezza. Sempre presa tra guai da combinare e avventure da immaginare, la ragazzina con i suoi inseparabili amici, sembra quasi ignorare il mondo tragicamente triste che la circonda. Le stanze di un motel fatiscente (colorato come una favela sudamericana) e le strade afose e mortifere della periferia di Orlando diventano lo scenario di giochi interminabili e scorribande appassionanti, sempre lontani dai disastri di madri disperate e di adulti disagiati. L’infanzia di Moone diventa così l’ultimo, irripetibile, baluardo per sopravvivere alla follia di un mondo che, un po’ magico e un po’ osceno, è il perfetto negativo della cartolina disneyana evocata e sognata per tutto il film.
La spontaneità di Moone/Brooklynn (recita o è davvero così?) è uno dei cuori di un’opera che sa, come poche altre, rendere i suoi interpreti non professionisti talmente inseriti nella narrazione da farci dimenticare il confine tra opera di finzione e documentario. Da questo punto di vista, va segnalata anche la prova della “terribile” mamma Bria Vinaite, talmente insopportabile da trasformare il suo personaggio in un freak adorabile.
A rendere ancora più forte l’uso intelligente del cast, c’è la presenza magnetica di Willem Dafoe. L’attore americano, romano d’adozione, con un delicata e dolente umanità, è il supporto più forte dell’opera, riuscendo con umiltà ad essere guida, mediatore e sostenitore dei suoi colleghi meno esperti, della sceneggiatura volenterosa, del suo geniale regista. Interprete capace di spaziare dai mega budget fino alle opere più sperimentali e sofferte, Dafoe è forse uno dei pochi eroi che il Cinema ci ha consegnato negli ultimi anni, un attore che non ha certo bisogno di un Oscar per portare avanti, con coraggio e coerenza, la propria missione artistica.
Critico cinematografico