La normativa di tutela del dipendente che segnali illeciti altrui (c.d. whistleblowing) salvaguarda il medesimo dalle sanzioni che potrebbero conseguire a suo carico secondo le norme disciplinari o da reazioni ritorsive dirette ed indirette conseguenti alla sua denuncia, ma non istituisce una esimente per gli autonomi illeciti che egli, da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso, potendosi al più valutare il ravvedimento operoso o la collaborazione al fine di consentire gli opportuni accertamenti nel contesto dell’apprezzamento, sotto il profilo soggettivo, della proporzionalità della sanzione da irrogarsi nei confronti del medesimo.
Con tale motivazione, la Corte di cassazione - Sezione Lavoro - con ordinanza n. 9148/2023, ha rigettato il ricorso proposto da una dipendente, infermiera professionale presso un’Azienda Ospedaliera, che era stata sanzionata dal proprio datore di lavoro, con la sospensione per quatto mesi, per aver svolto attività, non autorizzata, presso un ente privato, per circa otto anni.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente che, a motivo di aver denunciato presso il proprio datore di lavoro condotte analoghe alle sue messe in atto da altri colleghi, chiedeva che nei di lei confronti fossero applicate le norme di protezione previste dall’art. 54 bis del D.Lgs 165/2001, i giudici della Suprema Corte, in conformità di quanto deciso dalla Corte territoriale, hanno ribadito che “l’applicazione al dipendente di una sanzione per comportamenti illeciti suoi propri resta dunque al di fuori della copertura fornita dalla norma, che non esime da responsabilità chi commetta un illecito disciplinare per il sol fatto di denunciare la commissione del medesimo fatto o di fatti analoghi ad opera di altri dipendenti”.
Inevitabile la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio e al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
Rocco Tritto