Niente da fare per un dipendente che si è visto confermare anche in Cassazione il licenziamento inflittogli dall’Amministrazione di appartenenza per aver attestato falsamente la presenza in servizio, nel periodo da aprile e maggio 2018, del suo superiore gerarchico, utilizzando il badge del medesimo superiore.
Dopo l’esito negativo del ricorso innanzi al Tribunale di Napoli e del successivo grado di giudizio presso la Corte d’appello, anche i Giudici della Suprema Corte, con sentenza n. 20206/2023, pubblicata ieri, 14 luglio, hanno rigettato il ricorso avverso la decisione della Corte territoriale n. 2746/2022, volto a ottenere la reintegra nel posto di lavoro.
La Corte d’appello aveva ritenuto irrilevante la circostanza, peraltro non provata, che il medesimo superiore fosse esonerato dalla timbratura e, al contempo, non aveva riconosciuto alcun valore probatorio all’ormai desueto documento cartaceo, da tempo sostituito dai tornelli elettronici, per attestare la presenza in ufficio.
I Giudici della Suprema Corte, nel ritenere inammissibili i motivi posti a base del ricorso, hanno ritenuto esente da ogni censura l’operato della Corte d’appello, e hanno, tra l’altro, richiamato il disposto di cui all’art. 55-quater, comma 1-bis del d. lgs. 165/2001, secondo il quale “Costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso. Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta”.
Al rigetto del ricorso, ha fatto seguito la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità e al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
Rocco Tritto