Con ordinanza n. 26446/2024, pubblicata lo scorso 10 ottobre, la Cassazione – sezione Lavoro – ha respinto il ricorso proposto da una Società avverso la sentenza della Corte di Appello di Firenze n. 110/2022 che, contrariamente a quanto statuito dal Giudice di primo grado, aveva annullato il licenziamento di una dipendente, disposto all’esito di procedimento disciplinare per aver scritto, sul proprio profilo Facebook, “frasi altamente denigratorie, offensive e diffamatorie nei confronti della Società e, in particolare, verso la persona del suo amministratore delegato”.
I giudici della Corte territoriale, infatti, accertavano nel corso dell’istruttoria che i fatti oggetto dell’addebito disciplinare riguardavano vicende legate alla salubrità di alcuni ambienti di lavoro e, segnatamente, di una palazzina che, oltre a essere sede di lavoro per numerosi dipendenti amministrativi, ospitava anche un impianto di potabilizzazione dal quale erano fuoruscite sostanze tossiche, provocando l’intossicazione di alcuni dipendenti, tra i quali anche il marito dell’autrice dello scritto ritenuto denigratorio dalla Società appellata.
A seguito di tale episodio, che era stato preceduto “da una lunga serie di doglianze da parte dei lavoratori riguardanti la salubrità dell’area dello stabile”, era comparso su Facebook il contestato post che aveva provocato il licenziamento della dipendente.
In conclusione, i giudici di secondo grado, atteso che alla dipendente-ricorrente andava riconosciuta l’esimente di cui all’art. 599 del c.p. per aver scritto il post “nello stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso”, escludevano che il fatto addebitato potesse essere qualificato come delitto per il quale il Ccnl di categoria prevedeva il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo e ritenevano il provvedimento espulsivo illegittimo “per essere l’illecito sproporzionato rispetto alla sanzione irrogata, pur avendo la vicenda rilievo disciplinare”.
Avverso tale decisione, la Società datrice di lavoro proponeva ricorso per cassazione con cinque motivi, ai quali la dipendente resisteva con controricorso.
La Suprema Corte, esaminate le argomentazioni della Società ricorrente, motivava le ragioni per la quali le stesse non potevano trovare accoglimento, riteneva esente da ogni e qualsiasi vizio di legittimità la decisione della Corte d’Appello e rigettava il ricorso, con conferma della illegittimità del licenziamento e condanna della medesima Società al pagamento a favore della controricorrente delle spese del giudizio, nonché al versamento di un ulteriore importo di contributo unificato, se dovuto.
Rocco Tritto