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Mercoledì, 24 Lug 2024

L’aspettativa retribuita in caso di ammissione a corsi di dottorato si applica soltanto al rapporto a tempo indeterminato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 8 febbraio 2018, n.3096.

Questi i fatti. Il Tribunale di Busto Arsizio aveva riconosciuto a un insegnante assunto a tempo determinato il diritto a fruire del congedo straordinario per dottorato di ricerca ex art. 52 legge n. 476/1984 e s.m.i. da svolgersi nel periodo 3 settembre 2007-30 giugno 2008 ed aveva condannato l’amministrazione scolastica alla conservazione del trattamento economico, previdenziale e di quiescenza.

La Corte d’Appello di Milano ha confermato la sentenza, richiamando a fondamento della decisione il principio di non discriminazione fra assunti a tempo indeterminato e lavoratori a termine ed ha evidenziato anche che l’interesse perseguito dalle norme sul congedo per ragioni di studio non è quello dell’amministrazione ma è riconducibile a diritti fondamentali della persona garantiti a livello costituzionale.

Non soddisfatto della decisione, il Miur ha proposto ricorso in Cassazione, che lo ha accolto, ritenendone fondati i motivi.

Secondo la Suprema Corte, la garanzia dell’aspettativa, nel caso in esame, è stabilita dalla legge ”a condizione che dopo il conseguimento del dottorato il rapporto di lavoro prosegua per almeno due anni, condizione, questa, in difetto della quale è dovuta la ripetizione degli importi conseguiti. La norma, quindi, nella parte in cui prevede il diritto anche alla conservazione del trattamento economico, non è compatibile con il rapporto a tempo determinato, posto che nel caso di specie quest’ultimo sarebbe scaduto a giugno 2008, ben prima del conseguimento del dottorato di durata triennale”.

Il periodo minimo dei due anni è preordinato al fine di consentire all’amministrazione di fruire delle conoscenze acquisite dal dipendente grazie agli studi post-universitari, nell’ottica di un contemperamento del diritto allo studio di quest’ultimo con l’interesse della prima, sicché l’incondizionata erogazione di un emolumento economico (la borsa di studio o la retribuzione) deve essere collegata a una condizione di stabilità del rapporto di pubblico impiego, che giustifica la deroga, per il periodo di svolgimento del dottorato, al principio generale di sinallagmaticità.

Del resto, la legge ha stabilito la tendenziale estensione al lavoratore a termine di ogni trattamento riservato ai dipendenti a tempo indeterminato “sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine” (art. 6 dlgs. 368/2001).

Che il dipendente debba essere legato all’amministrazione da un rapporto a tempo indeterminato si comprende per il fatto che è proprio sulla stabilità che si fonda il contemperamento fra gli opposti interessi in gioco, tanto che è stata prevista come condizione risolutiva del beneficio la cessazione del rapporto stesso, ove intervenuta prima del compimento del biennio. Peraltro – continua la Corte – la non comparabilità delle due situazioni a confronto, rispetto all’aspettativa retribuita, emerge evidente se si considera che, ove si consentisse al dipendente assunto a tempo determinato di fruire del beneficio senza imporre ulteriori condizioni, si finirebbe per legittimare una discriminazione a contrario, perché per il lavoratore a termine, se oggettivamente impossibilitato a garantire la stabilità biennale, non potrebbe mai operare la condizione risolutiva, limitata dal legislatore alla risoluzione del rapporto riferibile alla volontà del dipendente.

Per quanto ci riguarda, abbiamo trovato più convincente la soluzione prospettata dai giudici di merito, in quanto conforme al principio costituzionale di uguaglianza e al diritto allo studio, nell’ottica della elevazione del cittadino e, di riflesso, dell’intero corpo sociale, che risulterebbe menomata da qualsivoglia limitazione, tanto più se operata a danno di soggetti più deboli, come, nel caso di specie, i lavoratori a termine.

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