Il treno dei bambini di Viola Ardone, Editore Einaudi Stile libero, 2019, pp. 233, euro 17,50.
Recensione di Adriana Spera
Il treno dei bambini, in questi tempi di diffuso egoismo, andrebbe adottato a scuola come libro di testo perché non solo ci ricorda fatti realmente accaduti ma insegna un sentimento oggi bistrattato e deriso: la solidarietà. Negli anni del secondo dopoguerra la povertà e le disuguaglianze erano enormi, specie nel meridione, eppure, v’erano molto più altruismo e senso della comunità di oggi che, pur vivendo in condizioni migliori, egoismo e autoreferenzialità predominano. Quella solidarietà che manca nei confronti di chi è più povero, dei disabili, delle donne maltrattate e, soprattutto, dei migranti, che troppo spesso si trasforma in episodi di violenza e prevaricazione di cui sono piene le cronache e nell’odio di cui tracimano i social.
La storia, realmente accaduta, è ambientata a Napoli nel secondo dopoguerra.
Dal 1946 al 1952, il Partito Comunista organizzò l’accoglienza in casa di famiglie di contadini e artigiani del nord e del centro Italia (prevalentemente dell’Emilia-Romagna), di 70mila bambini (10 mila napoletani) tra i 4 e i 12 anni, non solo del sud, ma anche di altre grandi città, come Torino o Milano, devastate dai bombardamenti degli alleati.
Il progetto - che trovò una vivissima partecipazione da parte degli iscritti al partito, che accolsero in casa i bambini, sottraendoli alla povertà e permettendo loro di studiare - fu ideato da Teresa Noce, esponente dell’Unione Donne Italiane e da altri, come Maurizio Valenzi, poi diventerà sindaco di Napoli, e il giovane Guido Piegari, che «ogni due per tre dice: questione meridionale e integrazione nazionale», una frase che il piccolo Amerigo capirà solo da grande quando ricordando quelle discussioni pensa «chissà se l’ha risolta poi quella questione meridionale».
Se quella fu un’operazione di solidarietà e un tentativo cooperativo per ricomporre la frattura mai sanata tra Nord e Sud, negli stessi anni, quando ormai si era in piena guerra fredda, gli americani oltre al Piano Marshall misero in campo il Foster Parents Plan, una gigantesca operazione di affido a distanza, che consentì l’accesso agli studi a decine di migliaia di bambini italiani poveri.
Anche allora si disse che potevano essere aiutati a casa loro, ma le famiglie che li accolsero, non ricche, ma con un tenore di vita superiore a quello del sud, quando non adottarono questi bambini dall’infanzia negata, spesso continuarono a sostenerli finché non diventarono adulti, come ci ricorda Giulia Buffardi ne Il Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli 1946-1954, Editori Riuniti 2016.
In una intervista al settimanale Left, l’autrice ha detto di essersi ispirata non solo alla Napoli dell’epoca ma anche ai tanti minori che arrivano «da noi in Italia su mezzi di fortuna, di madri che affidano la sopravvivenza dei loro figli alla sorte e alla solidarietà degli sconosciuti che troveranno sul loro cammino. Le storie di migrazioni sono le storie del genere umano. Da sempre l’umanità è in movimento alla ricerca della dimensione di vita migliore per sé e per le generazioni future. Negare questo significa non aver mai aperto un manuale di storia».
Protagonista, ed io narrante con il suo linguaggio dialettale, è Amerigo Speranza – ci ricorda un po’ l’Useppe protagonista de La storia di Elsa Morante - un bambino di otto anni, Nobèl per gli amici, perché parla tanto e sa tante cose, vive in un basso nei Quartieri Spagnoli, meglio sarebbe dire sopravvive, con la madre, la anaffettiva Antonietta «Io dei bombardamenti mi ricordo il rumore delle sirene e gli allucchi della gente. Mia mamma mi prendeva in braccio e si metteva a correre. Andavamo nei rifugi e lei mi stringeva tutto il tempo. Io durante i bombardamenti ero felice».
Antonietta è di poche parole, le chiacchiere non sono arte sua, la perdita di un altro figlio più grande la rende triste e scostante «La sera nel letto le azzeccavo i piedi freddi sulla coscia. E subito arrivava l’allucco: Che, mi hai pigliato per il braciere tuo? Leva subito questi pezzi di baccalà! Però poi mi acchiappava i piedi e me li scaldava con le mani, dito per dito. E mi addormentavo, con le dita dei piedi miei in mezzo alle dita delle mani sue».
Il piccolo non ha mai conosciuto il padre «Io sono figlio unico, dato che con mio fratello maggiore Luigi non abbiamo fatto in tempo a conoscerci. Non abbiamo fatto in tempo neppure con mio padre, sono nato in ritardo con tutti», a scuola non va più perché con le lettere non va d’accordo e poi dalla maestra prende sempre le scoppole, lavora raccogliendo le pezze nella spazzatura che poi rivende, roba vecchia e sporca e piena di pulci che Antonietta pulisce e ripara per darle a Capa 'e fierro - un personaggio che non si capisce se abbia una storia con la madre o se semplicemente non approfitti della sua condizione - che le rivende sul banco a piazza Mercato. Con il suo amico Tommasino ogni tanto escogitano qualche espediente per arrotondare, come quando avevano venduto «le zoccole con la coda tagliata e pitturate di bianco e di marrò con la vernice per le scarpe» per farle sembrare criceti, finché una pioggia battente non svelò il trucco.
Ecco come riassume se stesso «Ma che me ne faccio io della speranza? Io la speranza la tengo già nel cognome, perché faccio Speranza pure io, come mia mamma Antonietta. Di nome invece faccio Amerigo. Il nome me l’ha dato mio padre. Io non l’ho mai conosciuto e, ogni volta che chiedo, mia mamma alza gli occhi al cielo come quando viene a piovere e lei non ha fatto in tempo a entrare i panni stesi. Dice che è proprio un grand’uomo. È partito per l’America per fare fortuna…Io pure sono ignorante, anche se dentro al vicolo mi chiamano Nobèl perché so un sacco di cose, nonostante che a scuola non ci sono più voluto andare. Imparo in mezzo alla via: vado girando, sento le storie, mi faccio i fatti degli altri. Nessuno nasce imparato».
Amerigo, anche se vive già le difficoltà di un adulto, è pur sempre un bambino che gioca con la fantasia: «Guardo le scarpe della gente. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male. Mia mamma dice che cammino storto. Non è colpa mia. Sono le scarpe degli altri. Hanno la forma dei piedi che le hanno usate prima di me. Hanno pigliato altre abitudini loro, hanno fatto altre strade, altri giochi. E quando arrivano a me, che ne sanno di come cammino io e di dove voglio andare?"».
Uno scugnizzo il cui piccolo mondo - circoscritto ai vicoli e ai bassi, con personaggi come: il dispotico Capa ‘e fierro, la monarchica Pachiochia e la Zandragliona, i suoi amici Tommasino e Mariuccia - improvvisamente viene sconvolto «Da quando si è saputo il fatto dei treni, dentro al vicolo abbiamo perso la pace. Ognuno dice una cosa diversa: chi sa che ci venderanno e ci manderanno all’America per faticare, chi dice che andremo in Russia e ci metteranno nei forni, chi ha sentito che partono solo le creature malamenti e quelle buone se le tengono le mamme, chi non se ne fotte proprio e continua come se niente fosse, perché è ignorante assai… Hanno detto Alta Italia per convincere le mamme. Ma la verità è che ci porteranno in Siberia e ci metteranno nelle case fatte di ghiaccio, con i letti di ghiaccio, il tavolo di ghiaccio, il divano di ghiaccio…».
Nel libro, a organizzare il viaggio è Maddalena Criscuolo, una giovane militante comunista, che ha partecipato alle gloriose Quattro Giornate della liberazione di Napoli; Amerigo viene accompagnato da sua madre al treno insieme agli altri bambini, dopo che sono stati lavati, rivestiti, forniti di scarpe nuove e di un cappotto, perché al nord fa molto freddo.
La scena della partenza del treno è una delle pagine più intense. Amerigo è ignaro di ciò che lo aspetta «Mia mamma avanti e io appresso… cammina veloce: ogni passo suo, due dei miei… Dove stiamo andando non lo so, dice che è per il mio bene. Invece ci sta la fregatura sotto, come per i pidocchi. È per il tuo bene, e mi ritrovai con il mellone».
Viene fatto salire sul treno «Osservo la mia mamma attraverso il finestrino. Lei si stringe nello scialle, in silenzio. Il silenzio è arte sua. Poi il treno urla forte, più forte della maestra con la scucchia quando scoprì lo scarafone morto che le avevamo messo sotto al sillabario. Allora le mamme fuori dal treno cominciano a muovere le braccia avanti e indietro e io credo che ci stanno salutando. Invece no. Tutte le creature sopra al treno si sfilano i cappotti e li buttano dai finestrini per darli alle mamme…questo era il patto: i bambini che partono lasciano i cappotti ai fratelli che restano…tanto i comunisti ce li danno un’altra volta».
Durante il viaggio, l’angoscia e il senso di abbandono prendono molti bambini che vengono rassicurati da Maddalena «L’amore ha tante facce, non solo quella che pensate voi.. Chi ti manda via ti vuole bene. Amerì a volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi ti trattiene», ma subentra lo stupore alla vista, per la prima volta della neve piove ricotta e della nebbia noi al meridione ancora non ce l’abbiamo. All’arrivo, il timore che nessuno li vorrà.
Amerigo finisce vicino Modena, in casa di Derna, una sindacalista che ha perso il suo compagno durante la lotta partigiana, una donna colta che lo accoglie col timore di sbagliare perché di bambini non ne capisco proprio; lo aiuta a fare i compiti, lo fa mangiar bene e gli compra finalmente delle scarpe che non gli fanno male. Pian piano, rotto il ghiaccio, il loro rapporto diverrà sempre più stretto. E poi c’è la famiglia di Rosa e Alcide Benvenuti, cugini di Derna, con i loro figli Rivo, Luzio e Nario. Rivo è un gran chiacchierone, Luzio, che è coetaneo di Amerigo, inizialmente sembra non accettarlo, Nario è il più piccolo.
Amerigo sente, per la prima volta il calore di una famiglia e in Alcide trova il padre che non ha mai avuto, questi gli insegna a costruire gli strumenti musicali e a suonare il violino, «Mi pare di essere pure io uno strumento scordato e che lui mi rimetterà a nuovo anche a me, prima di farmi tornare indietro da dove sono venuto».
Anche in un posto così aperto ed evoluto non manca chi lo rifiuti in quanto è uno dei bambini arrivati con i treni dal sud «Alcide mi aveva detto che non esistono bambini cattivi. Sono solo i pregiudizi…. Ha detto che è come una specie di ignoranza, e che tutti quanti, mica solo i miei compagni di scuola, dobbiamo stare attenti a non pensare con i pregiudizi».
Impara un’altra lingua: «Pure qua nell’Alta Italia già mi sono fatto conoscere da tutti quanti, dal verdummaro, che però si chiama fruttivendolo, dal chiancière, che si dice macellaio, dallo zarèllaro, che per loro è il merciaio; che ci sono dei mestieri di giù che qua invece non esistono proprio, come l’acquafrescàio e il carnacottàro».
Ma tutto finisce e con l’anno scolastico arriva il momento di dover tornare a casa, Amerigo e Tommasino si sentono divisi a metà tra vecchie e nuove famiglie, tra vecchia e nuova vita. «Tutto quello che avevo, già non ce l’ho più: la torta del mio compleanno, il dieci in matematica del maestro Ferrari, i segnali con la luce dalle finestre, l’odore dei pianoforti, il sapore del pane appena fatto, le camicette bianche di Derna… man mano che mi allontano dalla vita di prima, le facce di Derna, di Rosa e di Alcide si trasformano in quelle di mia mamma Antonietta, della Pachiochia e della Zandragliona. Tiene ragione Tommasino. Oramai siamo spezzati in due metà…Da un lato c’era mia madre e dall’altro tutto quello che desideravo: una famiglia, una casa, una cameretta solo per me, cibo caldo, il violino. L’accoglienza, la solidarietà,… ha anche un sapore amaro, per entrambe le parti, per quelli che la danno e per quelli che la ricevono».
Non tutti i bambini tornano a Napoli, Mariuccia viene adottata, Tommasino torna a casa ma con la promessa di tornare dagli affidatari, Amerigo ritorna da sua madre con la speranza di poter conciliare le sue due vite: la mamma e la famiglia di Modena, studiare e suonare il violino che gli ha regalato Alcide prima di partire. Ma Antonietta interrompe ogni contatto con la famiglia affidataria e toglie ad Amerigo il violino per venderlo.
E allora il bambino fugge e torna al nord, da quella che sente come una vera famiglia.
Nelle pagine finali, siamo negli anni ’90, Amerigo, che ormai è un affermato violinista, torna a Napoli per il funerale della madre che non ha mai perdonato, specie dopo che ha avuto un altro figlio, Agostino. Egli rifiuta il suo passato, la sua città e a chiunque incontra fornisce una diversa identità.
L’Io narrante non è più lo scugnizzo che ci racconta la sua vita con espressioni dialettali ma è un adulto che, dialoga con la madre morta, che riflette su tutti quegli anni di distacco fra loro. «Quello che non ci siamo detti non ce lo diremo più, ma a me è bastato saperti dall’altra parte di quei chilometri di strada ferrata, per tutti questi anni, con le braccia strette a croce sul mio cappottino. Per me è lì che resti. Aspetti, e non vai via… Ma adesso che la distanza è incolmabile e so che non ti incontrerò più, mi viene il dubbio che sia stato tutto un equivoco, tra me e te. Un amore fatto di malintesi… C’è molto tempo davanti a me, ma non ho fretta, il viaggio più lungo l’ho già fatto: ho dovuto percorrere a ritroso tutta la strada fino a te, mamma».
Tornare a Napoli però è anche ritrovare antiche conoscenze. Ritrova l’amico Tommasino - che grazie agli aiuti della famiglia affidataria ha potuto studiare e ora è un magistrato - e Maddalena Criscuolo che, continuando ad occuparsi di bambini in situazioni difficili, gli prospetta la necessità di doversi occupare di suo nipote Carmine, perché Agostino e sua moglie sono in carcere.
Si tratta ora di dover esser lui a dare aiuto ad un bambino in difficoltà, di dargli un’opportunità come la famiglia Benvenuti aveva fatto con lui «Siamo di nuovo sul marciapiede e mi torna in mente l’odore di Derna, quando alla fermata della corriera per Modena mi accolse nel suo cappotto. E ho paura. La mia mano, che fino a ora era stata abile solo nel manovrare l’archetto di un violino, può essere uno strumento capace di consolare e dare forza. È un potere così grande che non sono sicuro di saperlo usare. La mano che tiene stretta quella del bambino si sente a un tratto debole. Ha appena fatto una promessa che non è in grado di mantenere».
*Viola Ardone (Napoli 1974) è laureata in Lettere e ha lavorato per alcuni anni nell’editoria. Autrice di varie pubblicazioni, insegna latino e italiano nei licei. Fra i suoi romanzi ricordiamo: La ricetta del cuore in subbuglio (2013) e Una rivoluzione sentimentale (2016) entrambi editi da Salani.
Adriana Spera