di Adriana Spera
Al già tragico problema della disoccupazione e del precariato che attanaglia il nostro Paese, se ne sta aggiungendo, a grandi passi, un altro non meno grave: l’attacco alla busta paga e ai diritti di 3 milioni e mezzo di lavoratori pubblici.
Il preludio c’è stato con l’avvento del governo Berlusconi, che ha assegnato al ministro Renato Brunetta l’incarico di organizzare una vera crociata contro i dipendenti della pubblica amministrazione.
Si è partiti, nel 2009, con l’introduzione della odiosa e iniqua “tassa” sulla malattia (ora al vaglio di legittimità della Corte Costituzionale), col pretesto di ridurre il fenomeno dell’assenteismo. Il risultato è stato che a ridursi è stata la busta paga dei lavoratori.
Ma era solo l’inizio, se è vero, come è, che di lì a poco è giunto il decreto legislativo n. 150 del 2009, che ha introdotto i cosiddetti criteri, tutti da inventare, di premialità, con onere a carico di una parte consistente dei dipendenti (il 25%), che si vedrà cancellare dalla busta paga la componente (il 30% degli emolumenti mensili) di salario accessorio.
Sono passati pochi mesi, ed è stata la volta del blocco dei contratti pubblici a tutto il 2014, con una seria opzione anche per il triennio successivo. Con la manovra del 2010, è scattato il blocco delle progressioni economiche e di fascia stipendiale, di livello e delle retribuzioni.
Fino a tutto il 2013, il dipendente dovrà consolarsi dei soli benefici giuridici, che diventeranno economici salvo sorprese solo dal 2014 e senza alcun effetto retroattivo. Ma anche il 2011, che volge alla fine, è stato fatale per i lavoratori pubblici, bersagliati da più manovre, da ultimo la lettera inviata all’Unione europea, che ha rivitalizzato l’istituto della mobilità, anche a carattere ultraregionale, all’interno della P.A., preannunciando “meccanismi cogenti e sanzionatori”.
Non bisogna dimenticare che quache mese prima, in piena estate, con la manovra di luglio, era stato approvato il blocco delle assunzioni e ad agosto è stata la volta della buonuscita, per percepire la quale bisogna attendere, dopo il collocamento in pensione di anzianità, ventiquattro mesi; sei, invece, per le pensioni di vecchiaia e per quelle maturate con quarant’anni di contributi.
E, per restare in tema di pensioni, l’intervento col bisturi su quelle di anzianità, per ora scongiurato, sembra solo rinviato di poco e il rischio, per chi ha la “colpa” di aver iniziato a lavorare a diciotto anni, di dover andare in quiescenza dopo 49 anni di contributi, in attesa di superare i 67 anni di età, è sempre dietro l’angolo.