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Giovedì, 04 Lug 2024

di Maurizio Sgroi*

Qualcuno tirerà in ballo l’Imu, che però c’entra poco o nulla con lo sgretolamento dei valori immobiliari italiani relativi al primo trimestre 2013.

I numeri ci dicono che i prezzi delle abitazioni calano congiunturalmente dell’1,2%. Un miglioramento rispetto al -2,2% registrato nell’ultimo trimestre 2012, ma che segue a quelli registrati negli ultimi sei trimestri. A livello tendenziale il calo è del 5,7%, lo 0,5% in più rispetto al 5,2% dell’ultimo trimestre 2012. Un andamento che prosegue da cinque trimestri.

Se questi sono i (brutti) numeri del nostro mercato, non bisogna stupirsi che per la prima volta dagli ultimi due anni siano in calo non solo i prezzi delle abitazioni esistenti, che sprofondano del 7,7%, ma anche quelli delle abitazioni nuove (-1,1%). Segno evidente che l’inversione storica del ciclo immobiliare che stiamo vivendo non finirà molto presto.

Per capire quanto siano retrocessi i valori immobiliari solo negli ultimi anni, è utile dare un’occhiata ai numeri indice che la statistica ufficiale ci fornisce, tenendo conto che sono parziali, visto che il calo è cominciato dal 2008 in poi mentre i dati partono dal 2010.

Fatto 100 il valore delle abitazioni esistenti nel 2010, nel primo trimestre 2013 questo indice è crollato a 90,2, un’erosione lenta e costante di quasi dieci punti che tradotto in prezzi implica una clamorosa perdita di valore per lo stock di case esistenti, che ha effetti diretti sui patrimoni di famiglie, banche e assicurazioni, per non parlare degli immobili pubblici.

Rigurado alle case di nuova costruzione, l’indice, nel periodo considerato, è arrivato a 103,7. Un lieve incremento che però si scontra con la difficoltà a piazzare sul mercato il prodotto. Le compravendite, infatti, sono tornate indietro di trent’anni.

L’indice medio fra le due categorie, infine, totalizza un misero 94,2. A questo punto rimangono pochi dubbi sulla profonda crisi che sta vivendo il settore immobiliare nel nostro paese, persino peggiore di quella che ancora ricordiamo, vissuta agli inizi degli anni ’90. Con l’aggravante, rispetto ad allora, che la situazione debitoria delle famiglie italiane è drasticamente peggiorata.

Quello che più preoccupa, in tale contesto degradato, sono le prospettive. L’ultimo rapporto Ania sulle imprese assicurative italiane calcola che fra il 2008 e il 2012 il potere d’acquisto reale delle famiglie italiane è calato del 9,5%, provocando una contrazione dei consumi del 5% e del tasso di risparmio di oltre 4 punti. Ciò significa che le famiglie hanno sempre meno risorse da dedicare agli investimenti, fra i quali primeggiano le abitazioni. E infatti se andiamo a vedere il contributo degli investimenti lordi al Pil italiano, vediamo che fra il 2007 e il 2012 gli investimenti hanno subito un crollo del 22,8%.

Con un livello di reddito così basso e un tasso di risparmio ridotto al lumicino, in pratica lo spazio per capitalizzare una quota di risorse sufficiente a comprare una casa è pressoché nullo. A meno di non avere disponibilità liquide. Anche perché, sul fronte bancario, non si vede nessuno spiraglio di miglioramento.

Le banche, infatti, sono il vero nodo dolente. Dopo aver pompato per anni l’immobiliare “regalando” mutui, ora si trovano imbottite di crediti legati al mattone e piene di mattone fisico. E per di più si trovano costrette a stringere i cordoni della borsa, pure a rischio di svalutare i propri asset, se non vogliono mettere in bilico i loro coefficienti patrimoniali. La conseguenza è che l’erogazione di mutui procede col contagocce, le compravendite calano e i prezzi di conseguenza.

Difficile capire come si possa uscire da questa situazione. Gli Stati Uniti hanno optato per una soluzione drastica: la loro banca centrale ha iniziato a comprare obbligazioni basate su mutui immobiliari per rilanciare il mercato e stando agli ultimi dati, secondo i quali i prezzi delle case negli Usa sono cresciuti di circa il 12% nell’ultimo anno, tale strategia pare abbia funzionato, pure al rischio di creare nuove bolle.

L’esempio Usa, in qualche modo imitato anche dalla banca centrale inglese, verrà seguito anche dal Giappone, mentre la nostra Bce, di sicuro tentata, dovrà vedersela con le resistenze dei paesi del nord Europa, dove il mercato immobiliare, al contrario del nostro, si sta surriscaldando.

Un recente studio della Deloitte sul mercato immobiliare europeo fotografa benissimo la profonda segmentazione del settore nell’Ue. Lo “spread immobiliare” si allarga seguendo un andamento simile a quello finanziario, ma in maniera inversa: nei paesi dove lo spread finanziario è basso (vedi Germania) i prezzi sono in rialzo. Nei Gipsi, dove lo spread finanziario aumenta, i prezzi delle case crollano. Tutto si tiene, ovviamente.

Tale frammentazione rende molto difficile per la Bce immaginare un’azione comune per favorire la ripresa, quindi toccherà alle singole economie nazionali, in un contesto di crescente integrazione bancaria, tirare fuori il coniglio dal cappello e trovare una soluzione.

Le idee fin qui proposte non brillano per ingegno. In un modo o nell’altro si finisce sempre per batter cassa al governo, il quale, poverino, deve già vedersela con l’Imu.

Stando così le cose, non ci sono molte possibilità per un lieto fine. Il calo continuerà, facendo la fortuna di chi ha disponibilità liquide. Che sono tanti, pure se in minoranza.

A fine 2012 lo stock finanziario in mano alle famiglie italiane ammontava a 3.716 miliardi, cresciuto di 160 miliardi rispetto al 2011 grazie al boom delle borse. Il problema è che questi soldi ormai hanno abbandonato il mattone italiano, ancora troppo costoso e ormai tartassato.

In tempi di crisi, incerti e turbolenti, meglio una bella obbligazione.

Magari tedesca.

socio-economic journalist*
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