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Giovedì, 04 Lug 2024

Son passati venticinque anni dal 1989, e sembra lo ricordi solo il Fmi, che ha festeggiato le nozze d’argento fra ex comunisti e capitalisti, con un agile volume che racconta l’epopea dell’ex blocco sovietico dalla caduta del muro in poi. Vale la pena leggerlo, vuoi perché riporta tanti di noi a una bella e ormai lontana giovinezza, che ci fece sperare improvvisi rivolgimenti nel mondo, e poi perché ci accompagna fino alla maturità di oggi, quando abbiamo capito che il mondo, a differenza nostra, non cambia.

Fuor di metafora, l’idillio ormai è datato e val la pena fare un bilancio, come usa nella vita vera. Se non altro perché ci avevano detto che il matrimonio sarebbe stato d’amore, non certo di interesse, quando già dall’indomani della caduta del muro fu evidente a tutti che era vero il contrario.

La riunificazione dell’Europa, della quale quella tedesca fu la migliore rappresentazione, iniziò a misurarsi sin da allora col metro del Pil pro capite, magari misurato a parità di potere d’acquisto che, a differenza di quello quotato col metro della valuta, ha il pregio di raccontare con maggiore precisione le condizioni di vita dei diversi paesi, atteso che, nell’economania imperante, il potere d’acquisto fa la differenza fra chi sta bene e chi vivacchia.

Sicché leggo che molta strada è stata fatta sul versante della convergenza, ma di più ne rimane da percorrere. In Polonia, per dire, il Pil pro capite all’inizio del percorso di convergenza, era un terzo di quello della Germania Ovest. Ora, allo scoccare delle nozze d’argento, vale circa la metà. Il coniuge più povero, insomma, si è arricchito, ma ancora sta nella parte bassa della catena alimentare. E poiché il coniuge più ricco si è arricchito anch’egli, e forse pure di più, viene da chiedersi quanto abbia giovato a noi occidentali e capitalisti poter disporre di tanti poveri ex comunisti per celebrare felicemente il rito economico della contemporaneità.

Ma qui voglio solo narrarvi, seguendo il filo tracciato dal Fmi, cosa sia accaduto in questi 25 anni. I paesi oggetto del rapporto sono i Baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), quelli dell’Europa centrale (Repubbica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Slovenia, quelli del Caucaso e dell’Asia centrale (Moldova, Federazione Russa, Bielorussia e Ucraina), quelli dell’Europa sud-orientale entrati nell’Ue (Bulgaria, Croazia e Romania) e quelli della stessa area fuori però dall’Ue, Balcani compresi (Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia).

La prima circostanza che salta all’occhio, osservando gli sviluppi macroeconomici del primo periodo, è che il costo del matrimonio lo ha pagato il coniuge più povero, evidentemente ben disposto (o quantomeno costretto) a fare i necessari sacrifici pur di entrare nel club dei paesi moderni. In termini di prodotto ci sono voluti dieci anni per tornare alla crescita zero dopo un picco di calo aggregato che ha toccato il 10% medio per l’intero gruppo dei paesi, fra il 1991 e il ’93, con punte del 25% per i paesi Baltici.

Peraltro, il crollo dei vari Pil si accompagnò con rialzi fuori misura dell’inflazione, ove non direttamente iperinflazione, in gran parte dei paesi dell’est, costretti a confrontarsi d’improvviso con i prezzi di mercato che le pianificazioni sovietiche avevano tenuto dietro la cortina di ferro. Nei paesi sud orientali l’inflazione arrivò al 160% fra il ’96 e il ’98, dovendo altri paesi, Russia in testa, fare i conti con i cascami della crisi asiatica del ’97.

I primi anni duemila, tuttavia, digerita la transizione, furono quelli della crescita, che in media arrivò a sfiorare il 6%, con punte del 10% nei paesi Baltici, fino a quando, dal 2007 in poi, i torbidi internazionali non ricordarono agli ex comunisti che le loro fortune erano appese al tenuissimo filo dell’ottimismo occidentale.

Scoprirono così, i poveri, che il coniuge indulgeva alla ciclotimia tipica dei ricchi, che avendo troppo, perdono altrettanto quando il clima cambia. Sicché i sistemi finanziari di questi paesi, verso i quali le ricche banche occidentali avevano indirizzato un flusso di finanziamenti che aveva raggiunto la non modesta cifra di 450 miliardi di euro, si trovarono a dover gestire importanti deflussi capaci di terremotare non solo le loro economie, ma anche quelle dei paesi più ricchi.

Ne scaturì la Vienna initiave, così intitolata prendendo spunto da un vertice tenutosi nella capitale austriaca a gennaio del 2009, che si proponeva di coordinare la ritirata dei capitali occidentali da quelle piazze pericolose. Vale la pena notare come la Vienna iniative sia stata replicata nel 2012, dopo che l’eurocrisi aveva riacceso i timori derivanti dai rischi di un deleveraging disordinato.

Sicché nel 2009 il prodotto tornò a declinare in media del 6% con punte del 18, “un impatto più severo – nota il Fmi – che in ogni altra regione al mondo”.

L’arrivo dell’eurocrisi ha reso la ripresa altalenante e, oltre ad avere accesso le attuali tensioni geopolitiche fra Russia e Ucraina, ha pure peggiorato l’outlook, impattando sia sulla sostenibilità fiscale di molti stati, che sulla loro posizione estera.

Tuttavia, malgrado gli alti e bassi, nel venticinquennio trascorso il Fmi nota compiaciuto la “forte convergenza” dei paesi dell’ex blocco sovietico con quelli occidentali dell’Europa. In media, il Pil pro capite è cresciuto dal 30% della media Ue a 15 al 50% di oggi, anche se ammette che tale media nasconda importanti differenze all’interno dei singoli paesi. Tutto merito, manco a dirlo, dell’ampio processo di riforme strutturali che i vari paesi, anche qui con differenze importanti, hanno realizzato in questo quarto di secolo.

L’impatto sociale di questa rivoluzione, nota il Fmi, “è stato profondo”. Le popolazioni ex comuniste hanno dovuto patire, e non poco, la transizione da un sistema in cui il lavoro era garantito, ad un altro dove la logica del mercato ha fatto esplodere la disoccupazione fino a quando le riforme del lavoro e del mercato non hanno iniziato gradualmente a riassorbirla. Fanno eccezione i paesi dei Balcani occidentali dove la disoccupazione è rimasta molto elevata durante tutto il periodo.

Ma forse l’indicatore che meglio fotografa quanto abbia patito la popolazione è quello che misura l’aspettativa di vita. In molti paesi tale indice è rimasto stagnante per numerosi anni, in altri, e segnatamente in Bielorussia, Moldova, Russia e Ucraina, è addirittura diminuito, confermando che il capitalismo allunga la vita solo a coloro che possono permetterselo.

Altrettanto, sono esplosi gli indici di disuguaglianza. Dall’era socialista, dove gli indici di Gini erano estremamente bassi, nel range 18-26, si è passati a range 26-42, ossia al livello dell’Ue a 15, quindi ante rivoluzione. Ma anche qui, le medie nascondono ampie differenze.

Se proviamo a guardare avanti, immaginando come saranno i prossimi venticinque anni, il Fmi ci dice soltanto che questi paesi devono ancora fare i conti con le necessarie riforme strutturali e con un attento monitoraggio della stabilità macroeconomica e finanziaria. Sono un po’ come dei Piigs, ma di serie B.

Forse arriveremo a celebrare le nozze doro, fra ex comunisti e capitalisti. Ma la parità fra i coniugi, nell’Europa prossima ventura, è ancora una speranza lontana.

E chi campa di speranza …

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