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Lunedì, 20 Mag 2024

L’audizione in Parlamento del presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, sulle strategie e gli strumenti dell’evasione fiscale, un fenomeno dai contorni indefiniti, variamente articolato nella distribuzione territoriale e settoriale, ha evidenziato, ancora una volta la schizofrenia del sistema Italia.

Da un lato, una pressione fiscale effettiva del 53%, divenuta ormai insostenibile per i contribuenti onesti, sui quali sta per abbattersi, salvo ripensamenti dell’ultima ora, la scure di un nuovo aumento dell’aliquota ordinaria dell’Iva, dall’altro, cittadini e imprese che, anche grazie alla globalizzazione dei mercati e alla diffusione del commercio elettronico che rendono oggi ancora più elevato il rischio di evasione, continuano a farla franca.

E’ appena il caso di sottolineare la condanna in primo grado a 1 anno e 8 mesi degli stilisti Dolce e Gabbana per avere costituito società all’estero per non pagare il fisco italiano o la imbarazzante vicenda in cui è coinvolta la (non più da ieri) ministra Idem, che però si ritiene estranea ai fatti, in quanto troppo impegnata a pagaiare per sapere cosa faceva nel frattempo il suo commercialista.

L’Agenzia delle Entrate, dal canto suo, ha fatto sapere che deve riscuotere 545 miliardi di tasse evase dal 2000 a oggi, praticamente un quarto del debito pubblico italiano che ci costa quasi 100 miliardi di euro all’anno di interessi.

In questo quadro sconfortante, il ministro Giovannini, già presidente di una commissione di studio voluta da Tremonti nel 2011 sull’economia non osservata e i flussi finanziari, sembra voler giocare a rimpiattino con il nodo cruciale del lavoro e dell’occupazione giovanile.

In attesa di poter far affluire al suo dicastero quello che resta dei fondi comunitari non utilizzati per la realizzazione di progetti, prende tempo sul cuneo fiscale: “Sappiamo che questi interventi richiedono ingenti risorse e quindi ne parleremo con la legge di stabilità e non in questo momento”. Non essendo uno sprovveduto, Giovannini dovrebbe ben sapere che a ottobre la situazione delle casse pubbliche non sarà migliore di quella attuale e che i soldi da investire sulla riduzione del costo del lavoro non si troveranno. Forse si augura che da qui a qualche mese la patata bollente (o la cipolla che faceva piangere il precedente ministro), sarà passata nelle mani di qualcun altro.

Ma, tra le polemiche “grilline” e un Berlusconi che invita a sforare il patto di stabilità - dimenticandosi però che è stata proprio la sua maggioranza parlamentare ad approvare nel 2012 la riforma costituzionale, che introduce il pareggio di bilancio strutturale - è passata sotto silenzio la notizia che l’Eurogruppo (i ministri dell’economia e finanza dei paesi aderenti all’Euro) ha affidato all’Esm (European stability mechanism) la ricapitalizzazione delle banche in sofferenza, fino a un ammontare totale di 60 miliardi di euro.

Non più un fondo salva-Stati, che interviene sui debiti sovrani dei Paesi in difficoltà (Grecia, Irlanda, Portogallo, Cipro) per evitare il tracollo dell’euro, ma un fondo salva-Banche che sposta risorse pubbliche dall’economia reale alla finanza.

Dopo il salvataggio di Mps dei mesi scorsi, una nuova mazzata per gli ignari italiani, ai quali viene taciuta la differenza sostanziale tra il nuovo meccanismo di stabilità e il precedente.

Con l’Efsf (European financial stability facility) in vigore fino al 2012, l’Italia si limitava a iscrivere a debito pubblico la quota del fondo, come garanzia delle obbligazioni emesse, senza dover effettivamente sborsare valuta.  Con l’Esm – o Mes nella versione nostrana – al quale l’Italia contribuisce con una quota di circa il 18%, il Tesoro deve sottoscrivere le quote di capitale del fondo, versando ingenti somme che racimola con l’emissione di titoli di debito pubblico, sui quali gravano interessi.

Senza voler essere tacciati di populismo, i 10,8 miliardi per la ricapitalizzazione delle banche europee (a tanto ammonta infatti la quota italiana), potevano essere più proficuamente utilizzati per il rilancio dell’economia reale, a partire proprio dalla riduzione del cuneo fiscale.

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