di Adriana Spera
Dal messaggio del capo provvisorio dello stato, Enrico De Nicola, seduta del 15 luglio 1946: “La Costituzione…sarà certamente degna delle nostre gloriose tradizioni giuridiche, assicurerà alle generazioni future un regime di sana e forte democrazia, nel quale i diritti dei cittadini e i poteri dello Stato siano egualmente garantiti, trarrà dal passato salutari insegnamenti, consacrerà per i rapporti economico-sociali i principi fondamentali, che la legislazione ordinaria - attribuendo al lavoro il posto che gli spetta nella produzione e nella distribuzione della ricchezza nazionale - dovrà in seguito svolgere e disciplinare”.
Difficile sostenere che quello di De Nicola non sia stato, almeno per un bel pezzo della nostra storia, un discorso profetico. Poi le cose sono cambiate e la Carta ha cominciato a essere riformata, con consistenti cambiamenti dell’assetto delle regioni e dei rapporti tra queste e lo stato. Oggi gli articoli che la compongono non sono più 139 ma 134 e altri, già modificati, entreranno in vigore a decorrere dall’esercizio finanziario 2014. A partire dall'iniquo pareggio di bilancio, che rischia di sprofondare ancor più l'economia del paese.
Per l’attuale governo, infine, quella della riforma della Costituzione è diventata più che una bandiera, una questione di vita o di morte. All’opposto stanno coloro che, a sentire le notizie di stampa, di cambiare la Carta proprio non ne vogliono sapere. E siccome sono minoranza, che poco riesce a farsi sentire, sabato scorso volentieri abbuiamo assistito alla loro manifestazione a Piazza del Popolo per capire esattamente quello che pensano.
Abbiamo scoperto così che sono meno “feticisti” di quanto li dipingono. Chiedono solo che qualsiasi riforma della Costituzione avvenga attraverso “un percorso partecipato”, senza stravolgere l’art. 138, che detta le regole per la revisione costituzionale. Francamente, mi pare il minimo che si possa pretendere in uno stato democratico.
Al di là di ogni altra considerazione, è difficile farsi una ragione del fatto che l'attuale Parlamento, eletto con una legge che tutti ritengono incostituzionale e scommettono che la stessa Corte costituzionale tale la dichiarerà tra pochi giorni, possa arrogarsi il diritto di riformare la legge fondamentale dello stato.
Se non ricordiamo male, questo Parlamento doveva limitarsi a modificare la legge elettorale.
Sicut erat in votis, tanto sarebbe bastato.