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Lunedì, 06 Mag 2024

“La quinta stagione” di Peter Brosens e Jessica Woodworth, con Aurélia Poirier, Django Schrevens, Sam Louwyck, Gill Vancompernolle, Peter Van den Begin; durata 93’, nelle sale dal 27 giugno 2013, distribuito da Nomad Film

Recensione di Luca Marchetti

Dopo quasi dieci mesi dalla sua prima mondiale al Lido di Venezia, arriva finalmente anche nelle sale italiane La quinta stagione (La Cinquieme Saison), una delle pellicole più interessanti (e disturbanti) dell’ultima Mostra del Cinema.

Il film, diretto dalla coppia di registi Peter Brosens e Jessica Woodworth, è il capitolo conclusivo di una trilogia che, inizialmente attraverso il documentario, affronta il rapporto tragico e conflittuale che si è instaurato tra l’Uomo e la Natura.

Dopo aver parlato dell’avvelenamento del terreno (Altipiano) e delle malattie infettive degli animali (Khadak), la coppia belga per il gran finale sceglie di mettere in scena un racconto di finzione, una sorta di disaster movie metafisico.

La quinta stagione, sembrerà strano sentirlo dire, almeno tecnicamente non è troppo lontana da quelle rumorose pellicole piene di effetti speciali nelle quali registi come Roland Emmerich (2012, The Day After Tomorrow) si divertono a inscenare catastrofi naturali e apocalissi. Infatti, come in quelle mega-produzioni, il film segue la vita di diversi personaggi, tutti costretti ad affrontare un disastro climatico, e mostra l’evoluzione dei loro rapporti in questa situazione di pericolo. Se però in quei prodotti, spesso la disgrazia naturale dava la possibilità all’umanità di riscoprire solidarietà e speranza, ne La quinta stagione, invece, la vicenda si dirige, in modo inesorabile, verso un finale spietato e crudele.

Nel piccolo paesino del film, infatti, quando l’inverno decide di non finire e la terra smette di dare i propri frutti, la maggioranza della popolazione non pensa nemmeno per un momento ad aiutarsi a vicenda ma, anzi, non perde l’occasione per tirare fuori il peggio della propria natura, dando sfogo a grettezze, bestialità e paranoie.

I pochi personaggi positivi, tra cui un povero straniero cui è cucito addosso il ruolo del capro espiatorio da sacrificare, non possono fare altro che venire schiacciati dalla lucida follia della comunità, sfociata ormai in un’irreversibile brutalità ancestrale.

L’involuzione civile di una società messa alla prova è un tema trattato, anche con grande intelligenza, in molte altre opere (ad esempio Cecità di Jose Saramago). Questa volta però i due autori evitano il tono didascalico del trattato sociologico o della pedante operetta morale sulla miopia dell’Uomo.

Brosens e Woodworth dunque partono, come nella miglior fantascienza, da una storia assurda e con spirito da documentario si limitano a osservare la deriva dei propri personaggi.

Il risultato è un lavoro dove lo spettatore è preso e condotto in un’atmosfera angosciante e disperata, la quale lascia dentro un terribile ma sano senso di disgusto, che accompagnerà il pubblico per diverso tempo.

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