“Black or White”, di Mike Binder, con Kevin Costner, Octavia Spencer, Jillian Estell, Gillian Jacobs, Jennifer Ehle, Joe Chrest, Mpho Koaho, David Jensen, Andre Holland , durata 121’, nelle sale dal 5 marzo 2015, distribuito da Good Films.
L’opera di Mike Binder, nonostante non sia appariscente, acclamata e commercialmente quotata come quella di molti suoi colleghi (più sopravvalutati), è comunque costruita su grandi ambizioni e su solidi ideali, il segno di un Cinema che, lavorando con semplicità e con mestiere sulle emozioni, regala immagini inedite e non scontate di un’America diversa.
Dopo aver affrontato di petto le eredità nefaste del 11 settembre con lo struggente e dimenticato Reign over me (con un eccellente Adam Sandler in una delle sue più convincenti interpretazioni drammatiche), il regista di Detroit questa volta si affida al carisma e alla forza scenica di un gigante come Kevin Costner per entrare nelle sfumature di un altro tema “a rischio”: il razzismo. Black or White, infatti, racconta la vita malinconica di Elliot, importante avvocato appena rimasto vedovo e costretto a crescere la sua nipotina afroamericana Eloise.
Nonostante il grande amore che lega il nonno e la nipote, Elliot dovrà lottare contro le pretese dell’ex genero tossicodipendente Reggie (Andrè Holland, giovane attore già fattosi notare nella serie tv The Knick e nel film Selma), intenzionato a strappargli l’affidamento della bambina.
Presentato all’ultimo festival di Roma e umiliato dalla grande critica togata, il film di Binder, dunque, è un’opera superficialmente semplice.
Le battaglie quotidiane di Elliot, dal lutto improvviso al durissimo epilogo in tribunale, infatti, non riservano sorprese visive eclatanti o rivoluzionarie e si svolgono su una strada narrativa alquanto prevedibile e diretta.
Eppure, raramente, ci capita di assistere a pellicole così fiere della propria genuinità, così consapevoli di usare la propria schietta normalità per raccontare con efficacia un mondo che sta cambiando.
I film di Binder sono opere che immergono le proprie radici culturali e i propri riferimenti cinematografici nel Classico, nelle filmografie di maestri come Frank Capra, ma che non provano mai a stupire con il proprio background, a influenzare il pubblico con paragoni altisonanti (nonostante Kevin Costner sia qui, apertamente, un James Stewart contemporaneo).
Il regista non si crogiola sul proprio talento e non costringe il pubblico a subire i suoi personaggi e le sue scene. Binder, anzi, con un talento in grado di dosare alla perfezione sequenze madri e gag più leggere, riesce a fare di Black or White un film commovente e sincero, dove senza rabbia o faziosità, si guardano in faccia alcuni dei fantasmi più terribili e difficili degli Stati Uniti del 2015.
Certo, per noi, sarebbe stato estremamente facile liquidare tutti gli sforzi del regista e del suo cast come retorici, falsi e infantili, accusare Black or White di essere una pellicola fuori tempo massimo, senza coraggio o inoffensiva. Ci saremmo potuti accodare comodamente alla massa e avremmo potuto finire così. Eppure, sono proprio opere “banali” come questa a costringerci a prendere posizione e a difenderle (forse anche oltre il giusto).
Perché le pellicole come quella del buon Mike Binder sono le uniche capaci, senza effetti speciali o sceneggiature arroganti, di raccontare con una forza emotiva trascinante, quelle piccole grandi storie che conquistano il cuore, le sole di cui il pubblico ha davvero bisogno.
*critico cinematografico