Tra le opere meno note di Søren Aabye Kierkegaard, autore del “Diario del seduttore”, c’è anche un piccolo prontuario per capire cos’è la noia e come organizzarsi per contrastarla ora tradotto e pubblicato in Italia per i tipi del Melangolo, a cura di Laura Liva.
L’editore ha avuto solo la condivisibile accortezza di intitolarlo “L’arte di sconfiggere la noia” anziché “La rotazione delle colture. Esperimento teorico di buon senso sociale”, che è il titolo originale, invero assai bizzarro, in quanto mescola un’antichissima tecnica agricola con una forma di saggezza capace di regolare il buon vivere.
L’assunto da cui parte Kierkegaard è che, se tutti gli uomini sono noiosi, noioso può essere “chi annoia gli altri, quanto chi annoia se stesso”, con questa differenza tra le due categorie: “quelli che si annoiano sono gli eletti, la nobiltà, ed è assai curioso che coloro che non si annoiano in genere annoiano gli altri, mentre coloro che si annoiano divertono gli altri”
L’autore distingue, poi, tra ozio e noia, affermando che non il primo ma la seconda è la radice di ogni male, dato che,” se non ci si annoia, l’ozio è un modo di vivere davvero divino”.
Per il Nostro, la noia non è altro che la manifestazione della vanità che è a fondamento dell’esistenza dell’esteta, della sua visione nichilistica del mondo.
La noia, dunque, è la percezione di questo nulla, una vertigine da cui ciascuno, a suo modo, cerca di sfuggire, magari attraverso divertimenti temporanei o attuando provvisorie fughe dalla realtà. E’ qui che vien fuori il collegamento tra la vertigine della noia e la coltivazione dei campi: come il contadino, che sfrutta il medesimo appezzamento, alternando le colture, così per sfuggire la noia è necessario prendere ciò che ci è dato, le circostanze oggettive in cui ci troviamo e sfruttarle il più possibile, variandole.
Ciò è possibile fare secondo il principio dell’arbitrarietà, che si può esercitare soltanto distaccandosi dalla realtà, senza farsi coinvolgere in alcun aspetto. Sono, perciò, da evitare legami e vincoli che comportano responsabilità, come l’amicizia, il matrimonio e qualsiasi incarico professionale, anche se tutto questo non significa vivere senza contatti con gli uomini.
Il rapporto con gli altri non si può eludere, ma ciò che conta è poterne fuggire, avendo “in proprio potere gli stati d’animo”, vale a dire il controllo sulla propria vita emotiva. Questo stile di vita è qui definito il più disciplinato di tutti, ma altrove (ne “Il concetto dell’angoscia”), lo stesso Kierkegaard non esita a considerarlo la peggiore forma di schiavitù, perché l’esteta, chiuso nei confronti della realtà, paga per questo suo atteggiamento il prezzo di una vita fatta di stati d’animo frammentari e inconsistenti, esperendo una paradossale combinazione di passione e apatia. La condizione conosciuta nel medioevo come tedium vitae (o acèdia) e nota alla modernità come spleen.