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Sabato, 13 Dic 2025

La sentenza del Consiglio di Stato n.5160/2020, pubblicata lo scorso 24 settembre, è sicuramente destinata a fare scalpore in materia di pubblici concorsi, in particolare nell’ambito universitario, se è vero, come è, che d’ora in poi il commissario d’esame che è stato “Maestro” di uno o più candidati avrà l’obbligo di astenersi; in caso contrario, tutta la procedura potrà essere annullata.

Si tratta di una decisione che, con argomentazioni che a noi appaiono assolutamente condivisibili, muta un consolidato orientamento giurisprudenziale dell’Organo supremo della Giustizia amministrativa.

A determinare la “virata” è stato il contenzioso insorto tra due professoresse di II fascia aspiranti alla cattedra di Ordinario presso il Dipartimento di Giurisprudenza di un ateneo pugliese, a seguito di procedura valutativa, riservata ai docenti interni, per la copertura di un posto di professore universitario di ruolo di prima fascia, per il settore concorsuale 12/D1 “Diritto Amministrativo” - SSD IUS/10 - mediante chiamata ai sensi dell’art. 24, comma 6, Legge n. 240/2010.

A presentare domanda di partecipazione, due candidate, entrambe già “Allieve” di uno dei tre membri della Commissione esaminatrice e, segnatamente, di quello designato direttamente dal Dipartimento di Giurisprudenza, siccome previsto dal Regolamento dell’ateneo. Gli altri due membri erano stati sorteggiati da un elenco di quattro professori ordinari di diritto amministrativo indicati dallo stesso Dipartimento.

Una delle due candidate, prospettando la sussistenza di particolari rapporti di natura fiduciaria e patrimoniale tra il commissario di nomina diretta e l’altra candidata, presentava istanza di ricusazione nei di lui confronti che, però, veniva rigettata, per cui, all’esito della procedura, che l’aveva vista non vincitrice, adiva il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia.

Il Tar, riportandosi al consolidato orientamento giurisprudenziale della Giustizia amministrativa sullo specifico argomento, respingeva il ricorso, in quanto nell’ambito dei concorsi universitari, dato il carattere ristretto della comunità scientifica, è assai frequente l’esistenza di rapporti tra componenti della Commissione e candidati, sicché “non costituisce ragione d’incompatibilità la sussistenza di rapporti di collaborazione meramente intellettuale, mentre l’obbligo di astensione sorge nella sola ipotesi di comunanza di interessi economici di intensità tale da far ingenerare il ragionevole dubbio che il candidato sia giudicato non in base alle risultanze oggettive della procedura, ma in virtù della conoscenza personale con il commissario” (v. CdS, Sez. V, n. 4782/2011), nonché in caso di un “concreto sodalizio di interessi economici di lavoro e professionali talmente intensi da ingenerare il sospetto che la valutazione del candidato non sia obiettiva e genuina, ma condizionata da tale cointeressenza” (v. Tar. Lazio n. 6945/2013).

Di avviso opposto il Consiglio di Stato che, con la sentenza in rassegna, accoglieva l’appello proposto dalla docente avverso la sentenza del Tar e, per l’effetto, annullava tutti gli atti successivi al bando di concorso.

Per i Giudici di Palazzo Spada, infatti, “Certamente, non v’è dubbio che, in passato, il carattere ristretto della comunità scientifica di un determinato settore di riferimento potesse giustificare la deroga alle norme di astensione che presiedono a qualsiasi procedura concorsuale. Ma nel momento in cui le Università ed i docenti ad esse addetti raggiungono un’ampia diffusione numerica sul territorio, il giudice della legittimità deve poter valutare se quel carattere di ristrettezza degli appartenenti al determinato settore scientifico in questione sussista ancora. Orbene, alla data del passaggio in decisione del ricorso in appello, il sito istituzionale del Ministero dell’università indicava nel numero di 145 i professori ordinari di diritto amministrativo”, pertanto “questo collegio ritiene che tale numero non possa più giustificare quella deroga”.

Appello accolto, dunque, con compensazione delle spese dei due gradi di giudizio, “in ragione del mutamento dell’orientamento giurisprudenziale”.

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