La recente ordinanza della Cassazione n. 32952/2025, pubblicata il 17 dicembre scorso, segna un punto di svolta nel dibattito sulla responsabilità etica del lavoratore e sulla separazione tra vita personale e contesto professionale. Il caso riguarda il licenziamento per giusta causa di un operatore ecologico condannato per stalking nei confronti dell'ex coniuge.
La vicenda nasce dalla divergenza tra il Tribunale, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento, e la Corte d'Appello di Napoli che, con sentenza n. 3428/2024, lo aveva dichiarato illegittimo, disponendo reintegra e risarcimento. Per la Corte territoriale, i reati ascritti al lavoratore, sebbene gravi, non presentavano attinenza con l'attività lavorativa né con l'immagine morale dell'azienda, con la conseguenza che la condotta extralavorativa priva di nessi espliciti con il lavoro non integrerebbe una giusta causa.
Di diverso avviso i giudici della Suprema Corte, secondo i quali il dipendente è tenuto, quale obbligo accessorio, a non compiere comportamenti che ledano gli interessi morali del datore o compromettano la fiducia, indipendentemente dal luogo di commissione. Al riguardo, l’ordinanza in rassegna cita la sentenza n. 31866/2024, relativa a un conducente di autobus condannato per violenza familiare. Tale pronuncia aveva stabilito che la giusta causa sussiste in una condotta extralavorativa caratterizzata dal mancato rispetto della dignità altrui e da violenza abituale, specie quando le mansioni comportano contatto col pubblico.
Per la Cassazione, inoltre, non può trovare condivisione il tentativo della predetta Corte territoriale di circoscrivere l'applicazione dell'articolo 68 del CCNL alle sole condotte commesse dentro i luoghi di lavoro. Una condotta lesiva della dignità altrui, anche in ambito familiare, produce effetti che riverberano sul vincolo fiduciario e sulla tollerabilità del rapporto di lavoro.
La sentenza, dunque, riafferma che la giusta causa non richiede un nesso causale diretto tra condotta e attività lavorativa specifica. Il danno alla fiducia non necessita di manifestarsi attraverso episodi lavorativi concreti: è sufficiente che la gravità etica della condotta la renda incompatibile con il rapporto.
In conclusione, accolto il ricorso proposto dal ricorrente, sentenza impugnata cassata, conferma della legittimità del provvedimento espulsivo adottato nei confronti del lavoratore.
"Questo articolo è stato co-redatto con l'ausilio di intelligenza artificiale"

