A quasi un anno dall’insediamento del nuovo vertice in via Balbo, il management dell’Istat sta mostrando limiti che, forse, in pochi avrebbero immaginato. E non parliamo della mission alla quale deve assolvere, che è quella di fornire dati statistici, che dovrebbero essere al di sopra di ogni sospetto.
Ci riferiamo, invece, alla gestione del personale che, come noto, si compone di ricercatori e tecnologi, ma anche di personale tecnico e amministrativo, che è pari a circa il 50% del totale. Ed è proprio quest’ultimo che da qualche mese chiede il rispetto di precise norme contrattuali per ottenere progressioni di livello ed economiche, bloccate per anni dalle politiche di rigore dei vari governi che si sono alternati alla guida del paese e che solo da gennaio 2015 sono state riattivate.
Ma all’ente statistico lo sblocco fino a oggi è solo virtuale, atteso che la trattativa sindacale, che dovrebbe sfociare in un accordo per la individuazione delle risorse necessarie per finanziare le procedure selettive, è di fatto scivolata nelle sabbie mobili, a causa dell’atteggiamento dell’amministrazione che intende, a tutti i costi, imporre i “suoi“ conteggi.
Eppure, per dare a Cesare quello che è di Cesare, sarebbe sufficiente che l’amministrazione guidata da Giorgio Alleva, accantonasse - perché palesemente illegittima - la proposta di ridurre le risorse di poco più di un milione di euro, in ossequio a una disposizione legislativa (art. 9, comma 2-bis del decreto legge 78/2010) che legittima sì il taglio, ma solo in presenza di una diminuzione di personale in servizio tra il 2011 e il 2014.
Nonostante Usi-Ricerca abbia da tempo documentalmente provato, senza peraltro eccessivi sforzi e mentre altre sigle sindacali partecipavano ad inutili “tavolate tecniche”, che l’Istat nel quadriennio di riferimento non ha fatto registrare alcuna diminuzione di personale in servizio, il management, lungi dallo smentire quanto dimostrato solitariamente dal sindacato, continua imperterrito a fare orecchio da mercante e a riproporre ipotesi di accordi del tutto inaccettabili.
Eppure, non ci stancheremo mai di ricordare che Alleva, nel suo messaggio al personale dell’Istat, che reca la data del 23 luglio 2014, aveva, tra l’altro, scritto: “Sarà mia cura assicurare il benessere del personale, apprezzandone le competenze e le aspettative di carriera, assicurando la qualità del luogo di lavoro, favorendo la conciliazione del lavoro con esigenze personali o familiari”.
Tralasciando il benessere e quant’altro, basterebbe dare corretta applicazione a un semplice comma di un decreto-legge per porre fine ad una vicenda sempre più kafkiana.
E’ forse chiedere troppo?