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Mercoledì, 03 Lug 2024

Con sentenza n.40702/23, depositata il 5 ottobre 2023, la Corte di cassazione – VI Sezione penale – ha accolto il ricorso, presentato ai soli effetti civili dalla parte civile (una Spa, a prevalente capitale pubblico), avverso la sentenza, del 3 marzo 2022, della Corte d’appello di Firenze, che aveva confermato la sentenza del Tribunale di assoluzione dell’imputato dal reato ascrittogli ai sensi dell'art. 314, secondo comma, cod. pen. (peculato), per avere, nei primi mesi del 2013, quale responsabile dell'ufficio acquisti della medesima società, utilizzato sistematicamente, per circa quattro o cinque ore al giorno durante l'orario di servizio, la strumentazione informatica affidatagli, per svolgere ricerche, connettendosi a siti web per ricercare materiale utile per le sue pubblicazioni su tematiche storico militari, così omettendo di fatto di svolgere alcuna prestazione lavorativa, addossando all'ente di appartenenza le spese e i costi per effettuare tali ricerche in "internet", avendo egli memorizzato sulla sua postazione informatica 19 file su argomenti storico militari, 5.848 video e 1.329 file fotografici dal contenuto pornografico.

La società ricorrente - come leggesi nella sentenza in rassegna - censurava innanzi alla Cassazione la decisione della Corte d’appello, innanzitutto, per aver escluso che la condotta dell’imputato avesse causato un danno economico alla sfera dell'ente ovvero una lesione alla funzionalità complessiva dell'ufficio, sostenendo che l'azione dell'imputato potrebbe non essere consistita nello scaricare file sul computer dell'ufficio collegandosi a ‘internet’, ma nel trasferire su quel computer materiale da un dispositivo portatile “già pieno”: circostanza, questa, non solo non dimostrata dalle prove acquisite, ma anzi smentita dagli accertamenti compiuti dal consulente tecnico della parte civile, che aveva rilevato come dall'esame del sistema dell'apparecchio informatico dell'imputato era emersa la presenza di dati comprovanti l'uso di c.d. “meccanismi di anonimizzazione”, che vengono di norma impiegati per accedere a sito pornografici superando i "filtri" introdotti dalla amministrazione nei computer aziendali.

In secondo luogo, la parte ricorrente censurava la Corte d’appello per avere ingiustificatamente negato che la condotta dell’imputato, caratterizzata un non modesto, né episodico ed occasionale uso del computer assegnatogli, avesse provocato, al di là di un pregiudizio economico, una lesione dell'interesse al buon andamento, alla efficacia, alla imparzialità e alla trasparenza della pubblica amministrazione, come dimostrato dalla presenza nella memoria del pc di materiale privato, più che aziendale. Comportamento, quello tenuto dall’imputato, che, proprio per la gravità delle sue conseguenze, ne ha determinato il licenziamento.

Da ultimo, la società ricorrente criticava il Giudice dell’appello per aver escluso la sussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato che - secondo la medesima società - risultava comprovato dall’accertata volontà di appropriarsi di un bene aziendale per farne un uso privato, distogliendolo dalla sua finalità pubblicistica.

La Suprema Corte, ritenendo fondate tutte le argomentazioni svolte dalla parte ricorrente, contrariamente alle motivazioni presenti nelle decisioni di primo e di secondo grado, “entrambe caratterizzate da profili di una certa genericità”, annullava la sentenza impugnata ai soli effetti civile, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Rocco Tritto
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