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Mercoledì, 03 Lug 2024

Con ordinanza n. 29101/2023, pubblicata il 19 ottobre 2023, la Corte di cassazione – Sezione Lavoro – ha accolto, con rinvio, il ricorso proposto da un lavoratore avverso la sentenza n.4720/2018 con la quale la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha accertato la dequalificazione commessa ai danni del ricorrente dalla sua diretta superiore, con condanna ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro al pagamento di oltre 20mila euro, ma ha escluso il mobbing per mancata prova della reiterazione della condotta riferita ai singoli fatti mobbizzanti (demansionamento, totale stato di inattività ed emarginazione, trasferimento persecutorio, pressioni per accettare la mobilità).

In merito ai contrasti tra il ricorrente e la sua dirigente, la Corte d’appello “ha però accertato che quest'ultima (la dirigente, ndr) intratteneva rapporti stressogeni con tutti i dipendenti, in specie, nei confronti del ricorrente”, con una una condotta che la stessa Corte territoriale “ha qualificato come stressante modalità di controllo, con l’aggiunta che fu proprio il difficile rapporto con quest'ultima a generare l'animata discussione" tra i due, durante la quale il lavoratore ebbe un attacco ischemico.

La diretta superiore, infatti, come dichiarato nel corso del giudizio da un’altra dipendente presente all’alterco, dopo aver preteso con «prepotenza» di sedersi alla postazione del sottoposto con l’intento di controllare il suo computer, provocava la cancellazione di alcuni file e alle rimostranze del dipendente stesso replicava dicendo “io comando e faccio quello che voglio” e poi “la discussione si animò e lei non faceva nulla per smorzare i toni”, alterandosi sempre di più, “fino a quando abbiamo visto il ricorrente adagiarsi sulla sedia e sentirsi male”. Trasportato in ambulanza in ospedale, il lavoratore faceva ritorno in ufficio solo dopo molto tempo.

Per la Suprema Corte, i Giudici dell’appello, dopo aver escluso che il comportamento della dirigente, in quanto mancante la prova della reiterazione, fosse da qualificare come mobbing, avrebbe dovuto verificare che lo stesso non fosse da considerare “sotto il profilo dello straining”.

Al riguardo, la Cassazione sottolinea che è orientamento costante che “lo straining rappresenti una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all’art. 2087 cod. civ., sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta”.

Spetterà ora alla Corte d’appello, in diversa composizione, riesaminare la vicenda, tenendo naturalmente in debita considerazione le motivazioni contenute nell’ordinanza in esame, di accoglimento del ricorso proposto dal dipendente fatto oggetto di vessazioni, seppure occasionali e non continuative, da parte della sua diretta superiore.

Rocco Tritto
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