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Mercoledì, 26 Giu 2024

La chiesa convento di Sant’Antonio, patrono di Stigliano, 6.000 abitanti, 900 metri di altitudine, si erge su un’ampia scalinata, facciata in pietre bugnate e campanile a tre piani in pietra squadrata.

All’interno una navata centrale indirizza lo sguardo verso un crocifisso in legno del 1700, dietro l’altare. Ai lati, statue lignee. San Michele mentre sconfigge il drago regge con la destra la spada e con la sinistra la bilancia i cui piatti contengono pagnottine e fiaschette di vino. La bilancia pende vistosamente dalla parte del vino.

In una stanzetta, don Gaetano Grippo prega leggendo. Giovane, alto, barba rossa allo “stupor mundi”, lo interrompo per chiedergli informazioni. Si offre di farmi accompagnare da un amico nella visita della «città che nel 1637 divenne il primo capoluogo della provincia autonoma di Basilicata».

Incontro così Mario Sansone, gentile e disponibile, nella piazza del monumento ai Caduti. Da lì alla sede del Centro di Educazione Ambientale del quale è presidente, per prendere opuscoli e dischetti su Stigliano e dintorni. Poi, alla chiesa madre di Santa Maria Assunta, in pieno centro storico. Primo nucleo del decimo secolo, ampliata nel 1787, facciata baroccheggiante. All’interno, fra altro, uno dei più grandi polittici lucani, quello di Simone di Firenze, del 1521.

Ci riavviamo, Mario alla guida e io preso da quello che mi mostra, a interromperlo per cercare di far tesoro delle sue conoscenze. Famosi artisti sono venuti nel tempo a Stigliano per realizzare opere di street art, che rappresentano realtà e leggende, usi e costumi, studiati nel corso dei loro soggiorni. Il dipinto di un’artista russa sulla parete principale di una piccola vecchia casa, a colori bianco celeste e marrone chiaro pompeiano, raffigura una bella donna bendata. Alle sue spalle una bilancia, la donna regge fra le amorevoli braccia di mamma un rudere, il paese. A proteggerlo, augurandogli un futuro migliore, grazie anche alla fortuna, oltre che all’operosità dei suoi abitanti.

Più avanti, un punto dal quale si gode il più profondo panorama della Basilicata. Sulle sommità dei calanchi che contraddistinguono quest’angolo di terra lucana, da sinistra San Mauro Forte ora illuminato da ampi raggi di sole, poi Grottole, Salandra, pale eoliche a sfregiare il crinale, Ferrandina, Pomarico e dietro Matera e Altamura. Chiudono lo scenario Craco e Pisticci.

Di giorno, una carta geografica in rilievo. Di notte, un immenso presepio. Ci tornerò d’estate, fra i tanti antichi attrezzi agricoli che mi sono a lato e che da giovane ho visto usare, a godermi lo spettacolo notturno. Con ampio cielo sereno, calotta natalizia di mille e mille stelle sopra decine di gruppi di tremule luci. Cercando di non maledire troppo tutti quelli che hanno contribuito, attivamente o passivamente, a dissacrare questo paradiso con le loro artificiali altissime saette rotanti.

Un’opera lignea di Luis Gomez, famoso artista di street art, un palo. A metà altezza sul lato verso il paese, inchiodata al palo, scultura di piedi ossuti, forse maschili. Sul lato opposto, verso l’aperto orizzonte, coppia di piedi più delicati, forse di donna. La rappresentazione della crocifissione. I piedi troncati, mi spiega Mario, a ricordo del fatto che alle persone crocifisse così facendo veniva ridotto il tempo dell’agonia. Non è stato il caso di Gesù.

Più su, quasi proiettate sulle ragnatele dell’uscio dei ruderi di una casetta, figure spettrali rappresentano anime appartenute ad abitanti della casa che stanno per abbandonarla. Con loroscomparirà anche la memoria, questo il senso che l’autore Borondo, famoso come gli autori di altre cento opere, ha voluto dargli.

Attraversiamo un arco in pietra che introduce alla parte moderna e ci avviamo verso il mio albergo. Appena partiti, sulla parete laterale di una casetta, un dipinto del duo Amazonas, due sorelle che da una foto di Franco Pinna, hanno rappresentato una donna che piange un morto, lunga veste scura, bocca aperta a gridare il suo dolore, scialle nero con i bordi svolazzanti a mo’ di braccia protese verso il cielo a lanciarlo, il dolore disperato.

Giunti alla mia auto, nel salutarci, noto un’opera in gesso, con anima in filo e rete in ferro (apprendo), un monacello dalla risata irriverente, appoggiato a un tronco su cui un gallo è appollaiato. Quest’opera rappresenta uno degli otto monacelli benevoli, che contrariamente alla loro nomea di semidei dispettosi, sono benevoli. Il primo dona un gallo, simbolo di lungimiranza, per dire alla popolazione attenti, guardate lontano, non fermatevi. Fanno parte del Parco tematico della Mandarra, che raccoglie miti e leggende del paese. Giù, lungo un viottolo, un secondo monacello dona un toro, simbolo di forza e invincibilità. Su uno spezzone di tronco un falco, sculture in legno emergono o si incasellano in tronchi morti o emergono dalla terra, un falco, una tartaruga, Carmine Crocco e altro. Opere in legno di un giovane Gandini, diventato poi famoso a Roma per questo tipo di lavori.

Ci attende, realizzata in solo fil di ferro, la trasparente bella, esile figura della 17enne Rosetta, morta in incidente stradale, vagante come tutte le anime i cui corpi sono morti in modo violento. E, in ferro cemento, emergenti dal terreno, teste di altre anime vaganti vittime di morte violenta che non vogliono abbandonare questa terra e che di notte spaventano la gente.

Un vecchio e una vecchia dalla lunga vita vissuta, corrucciati per le cose lasciate in sospeso, una ragazza e un bambino in lacrime per i progetti che non potranno realizzare.

Infine, la Mandarra. Seduta su un muretto, enorme, aspetto da strega, le arrivo a metà gambe. Racconta la leggenda stiglianese, che non trova riscontri in nessun’altra mitologia classica né in quella dei paesi vicini, che questa donna si nascondeva negli anfratti, usciva di notte saltando di tetto in tetto per piombare su imprudenti malcapitati. Li stritolava fra le enormi gambe o li annegava nella sua copiosa orina. Unica speranza di salvezza, aggrapparsi al suo seno. Se ci riuscivano, campavano cent’anni. Guardo l’iscrizione accanto. Tutte le opere in ferro cemento del parco, compresa ovviamente la Mandarra, da cui prende il nome, sono di Mario Sansone! Non me lo aveva detto, questo artista, questa bella schiva persona.

Lascio Stigliano felice, grato a Mario e “riparto per altri borghi, con tante altre belle storie da raccontare”.

vitantonio iacoviello 130x130Vitantonio Iacoviello
Consigliere Nazionale Italia Nostra
Presidente Sezione Vulture Alto Bradano
facebook.com/vitantonio.iacoviello/

redazione@ilfoglietto.it

Il testo dell'articolo è apparso sul Quotidiano del Sud del 21 febbraio 2024

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