Gli ultimi dati sull’inflazione diffusi da Ocse raccontano di un graduale rallentamento dell’inflazione core (quindi senza cibi freschi ed energia) a cui si associa un calo più drastico dell’inflazione complessiva. Contengono quindi insieme una buona notizia e una meno buona.
La prima, quella buona, è che l’impatto declinante del costo dell’energia ha raffreddato significativamente i prezzi, che in certi momenti sono cresciuti di oltre il 10 per cento nell’area. Quella meno buona è che il rallentamento del carovita procede meno velocemente di quanto sarebbe auspicabile. Su base annua, nell’intera area, c’è stato un calo dal 5,6% di ottobre al 5,4% di novembre 2023 del CPI (consumer price index), mentre l’inflazione core è passata dal 6,5% al 6,3%, il dato migliore dall’aprile 2022, ma certo molto lontano dai desiderata delle banche centrali.
Se stringiamo l’osservazione ai paesi del G7, la situazione è migliore, nel senso che in questi paesi si sono osservati livelli di inflazione core più vicini ai target di banca centrale, ma ancora troppo elevati.
Complessivamente, per i paesi del G7, l’inflazione è passata dal 3,4% di ottobre al 3,1% di novembre. L’Italia si segnala per il rilevante impatto deflazionistico generato dall’energia, che quindi, guardandola da un altro punto rimane, rimane un nostro grande elemento di fragilità. In generale, tuttavia, rimane ancora rilevante il contagio che l’impennata inflazionistica ha avuto sull’intera struttura dei prezzi. La “coda” dei rincari, insomma, è ancora fin troppo lunga.
Maurizio Sgroi
giornalista socioeconomico
autore del libro “La storia della ricchezza”
Twitter @maitre_a_panZer
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